Attacco banzai o carica banzai (玉砕?, gyokusai o バンザイ突撃?, banzai totsugeki) era il nome dato durante la seconda guerra mondiale ad assalti frontali di massa condotti dalle forze di fanteria dell'esercito imperiale giapponese.

Questi attacchi avevano natura suicida, ed erano effettuati per evitare il disonore della resa e della prigionia in mano nemica, considerati dal codice d'onore vigente allora come la peggiore sorte possibile.[1]

Il nome della carica deriva dal famoso grido di guerra giapponese Tennōheika Banzai (天皇陛下万歳, letteralmente "Lunga vita a sua Maestà l'Imperatore").

Caratteristiche

Gli attacchi banzai non devono essere confusi con gli attacchi kamikaze, la cui filosofia era dettata da un preciso ragionamento strategico. Questi infatti erano freddamente concepiti come un estremo tentativo di massimizzare le possibilità di successo contro le forze alleate, solitamente superiori tecnicamente e numericamente. Gli attacchi banzai avevano - al contrario - uno scopo solitamente etico-morale, anche se in alcuni casi (per esempio durante la battaglia di Okinawa) si pensò anche di sfruttare l'impeto dell'attacco banzai per scopi tattici.[2]

In effetti gli attacchi banzai derivano delle "onde umane" o attacchi in colonna aperta praticati dai giapponesi nella guerra russo-giapponese e nella seconda guerra sino-giapponese, ed in altri contesti, durante tutta la prima metà del '900, talvolta anche con notevole successo tattico, sebbene a costo di pesanti perdite. Si trattava di assalti alla baionetta in ordine non troppo serrato, ma non come assalti infiltranti a squadre, secondo la prassi divenuta norma durante la prima guerra mondiale e diffusa anche in Giappone. Questo modello, antiquato, di assalto riusciva ad ottenere risultati pratici buoni qualora il nemico fosse carente di mitragliatrici ed armi automatiche e privo di artiglieria campale (come sovente in Cina). Per questo motivo la carica alla baionetta, in stile 1914, rimase molto praticata nell'esercito giapponese tra le due guerre e si continuò ad insistere su questa tattica in sede d'addestramento, ritenendo che i reparti in ordine "quasi chiuso" riuscissero a dimostrare, anche a costo della morte di buona parte degli assalitori, la superiorità morale dei nipponici e la forza, anche psicologica, della baionetta.

Già durante la campagna di Guadalcanal e quella sul fronte birmano nel 1942 fu evidente che queste tattiche erano inadeguate verso eserciti ben provvisti di pistole mitragliatrici, fucili automatici, mitragliatrici leggere e pesanti, mortai e artiglieria reggimentale, ovvero di un'elevata potenza di fuoco che, quando si univa a reticolati anche molto semplici come in Birmania e in Nuova Guinea, fermava le cariche con esiti disastrosi. Rimase però la convinzione, soprattutto in ufficiali giapponesi nazionalisti e subalterni, della superiorità della baionetta rispetto alla potenza di fuoco e dell'opportunità di dimostrare al nemico la propria superiorità nel coraggio e nell'onore che una carica quasi in colonna, potenzialmente suicida nell'età delle mitragliatrici, rappresentava. Tanto da spingere a riproporre, non più come scelta tattica "reale", ma come azione volutamente semi-suicida, questo tipo di operazioni, soprattutto quando si riteneva la sconfitta molto probabile. Va anche sottolineato che queste operazioni "obbligavano" i soldati ad affrontare la morte praticando una sorta di coercizione psicologica in cui l'unico modo per salvarsi era tradire ed abbandonare i propri compagni, e quindi predisponevano la mentalità delle truppe al suicidio. Suicidio che era considerato appropriato davanti alla sconfitta dalla maggior parte degli ufficiali e sottufficiali professionisti giapponesi e il cui dovere era considerato culturalmente scontato da una parte, maggioritaria ma non totale, delle truppe.

Questo genere di attacchi, contro statunitensi e britannici, produceva risultati pratici scarsi o nulli, concludendosi nel massacro totale degli attaccanti a fronte di scarsissime perdite fra i difensori. Nondimeno l'effetto psicologico sugli Alleati fu estremamente grave: impressionati dalla furia di questi assalti, i comandi statunitensi si risolsero ad annullare l'operazione Olympic e ad usare la bomba atomica per piegare il Giappone senza ricorrere all'invasione. Altresì l'impressione fu enorme anche fra la truppa, nella quale si diffuse la sensazione di combattere contro un nemico cieco e selvaggio, col quale era impossibile trattare. Inoltre nei pochi casi in cui la carica riusciva ad avere effetto e a spezzare la linea nemica, anche se quasi sempre a costo di perdite doppie o triple per gli attaccanti, i reparti di difensori sopravvissuti erano provati da un forte shock e sconvolti dalla visione dei soldati giapponesi che avanzavano incuranti delle perdite, sovente anche dopo essere stati gravemente feriti, con conseguenti crolli psicologici e traumi, in maniera simile a quanto accadde durante la guerra di Corea, quando l'esercito cinese scagliò alcune cariche "a onde umane" (ispirate da quelle fatte dai giapponesi contro di loro negli anni '30) contro le linee statunitensi, riuscendo però talvolta a spezzarle (ad esempio il 25 novembre 1950, con l'inizio della controffensiva "a tridente") e provocando ondate di panico e ritirate precipitose.

Attacchi banzai

Gli attacchi furono condotti da un numero molto variabile di uomini, a seconda delle circostanze. Di seguito un elenco di cariche particolarmente significative.

Il tenente generale Tadamichi Kuribayashi, comandante giapponese nella battaglia di Iwo Jima, fu forse l'unico alto ufficiale nipponico a proibire esplicitamente le cariche banzai. I suoi ordini tassativi, al contrario, imponevano agli uomini di rimanere al sicuro nelle fortificazioni ed eliminare da lì quanti più avversari possibile, sfruttando inoltre l'elaborato sistema di gallerie per contrattacchi locali ben congegnati: Kuribayashi non intendeva sprecare soldati in futili assalti a testa bassa.[9][10] Tuttavia, la notte tra l'8 e il 9 marzo 1945 il capitano di vascello Samaji Inoue radunò circa 1 000 uomini e li condusse personalmente nell'unico attacco banzai della battaglia: anche questa volta i giapponesi furono bersagliati da artiglieria e mitragliatrici e riuscirono solo a intaccare le linee del 23th Marine Regiment. Gli statunitensi ebbero 90 morti contro i circa 800 nipponici, compreso il capitano Inoue.[11]

Note

  1. ^ AA: VV., Storia della seconda guerra mondiale: dall'invasione del Reich alla capitolazione del Giappone, Rizzoli-Purnell, 1967, pp. 164 e ss, ISBN non esistente.
  2. ^ Gabrio Florianello, La marina del Sol Levante nella seconda guerra mondiale, Fratelli Melita, 1972, pp. 182 e ss., ISBN non esistente.
  3. ^ Millot 2002, pp. 315-316.
  4. ^ Millot 2002, pp. 468-469.
  5. ^ Millot 2002, pp. 660-663.
  6. ^ Millot 2002, pp. 694-695.
  7. ^ Millot 2002, p. 699.
  8. ^ Millot 2002, pp. 702-703.
  9. ^ Millot 2002, p. 859.
  10. ^ Garand 1971, pp. 456-458.
  11. ^ Garand 1971, pp. 677-679.

Bibliografia

Voci correlate

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