«Chi mente, se anche non scoperto, ha la punizione in sé medesimo; egli sente che tradisce un dovere e si degrada.»
Silvio Pellico (Saluzzo, 24 giugno 1789 – Torino, 31 gennaio 1854) è stato uno scrittore, poeta e patriota italiano, noto soprattutto come autore de Le mie prigioni.
Nasce il 24 giugno[1] 1789 a Saluzzo, oggi in provincia di Cuneo, secondogenito del commerciante piemontese di origine salentina Onorato Pellico (1763-1838) e della savoiarda Margherita Tournier (1763-1837), originaria di Chambéry. Sia Silvio che i quattro fratelli ricevono un'educazione cattolica dalla devota madre. Uno dei suoi fratelli, Francesco, divenne gesuita; le sorelle Giuseppina e Maria Angiola presero i voti. Il primogenito Luigi (1788-1841) tentò la carriera politica, condividendo le idee di Silvio e le sue stesse passioni letterarie.
Dopo gli studi a Pinerolo, dove suo padre nel 1792 aveva rilevato la gestione di un negozio, nel 1799, in seguito al fallimento dell'attività paterna, andò a vivere con la famiglia a Torino e in seguito fu inviato dai genitori in Francia, a Lione, per fare pratica nel settore commerciale. Nella città francese Pellico dimostrò scarsa inclinazione per gli affari, appassionandosi invece agli studi classici, alle lingue e agli autori contemporanei, quali Ugo Foscolo e Vittorio Alfieri, di cui diventò un fervente ammiratore. Al rientro in Italia, nel 1809, si stabilì con la famiglia a Milano, dove il padre aveva trovato un impiego pubblico al Ministero della Guerra del Regno d'Italia. A Milano il Pellico fu insegnante di francese presso il collegio militare. Giovane entusiasta della poesia neoclassica, frequentò Vincenzo Monti e Ugo Foscolo, legando in particolare con quest'ultimo. Cominciò a scrivere tragedie in versi di impianto classico, come Laodamia (1813) ed Eufemio di Messina. Alla caduta del regime napoleonico (1814) perse la cattedra di francese. Il 20 agosto 1815 a Milano venne rappresentata la sua tragedia Francesca da Rimini[2]. La tragedia reinterpreta l'episodio dantesco alla luce delle influenze romantiche e risorgimentali del periodo lombardo.
Nel 1816 si trasferì ad Arluno, nella casa del conte Porro Lambertenghi, dove fu istitutore dei figli Domenico (Mimino) e Giulio.
Strinse relazioni con personaggi della cultura, come Madame de Staël e Friedrich von Schlegel, Federico Confalonieri[3], Gian Domenico Romagnosi e Giovanni Berchet. In questi circoli venivano sviluppate idee tendenzialmente risorgimentali, rivolte alla possibilità di indipendenza nazionale; in questo clima, nel 1818 venne fondata la rivista Il Conciliatore, di cui Pellico fu redattore e direttore.
Pellico e gran parte degli amici facevano parte della setta segreta dei cosiddetti "Federati". Scoperti dalla polizia austriaca, che era riuscita ad intercettare alcune lettere compromettenti di Piero Maroncelli, il 13 ottobre 1820 Pellico, lo stesso Maroncelli, Melchiorre Gioia e altri furono arrestati. Da Milano Pellico fu condotto alla prigione dei Piombi di Venezia e poi in quella dell'isola di Murano, dove rimase fino al 20 febbraio 1822. A Venezia fu letta pubblicamente il 21 febbraio 1822 la sentenza del celebre Processo Maroncelli-Pellico (condotto dal famoso magistrato Antonio Salvotti).
I due imputati furono condannati alla pena di morte. Per entrambi, poi, la pena fu commutata: venti anni di carcere duro per Maroncelli, quindici per Pellico. A fine marzo i condannati furono condotti nella fortezza austriaca dello Spielberg. Partiti la notte fra il 25 e il 26 marzo, attraverso Udine e Lubiana giunsero alla prigione, situata a Brünn, l'odierna Brno, in Moravia. La dura esperienza carceraria costituì il soggetto del libro di memorie Le mie prigioni, scritto dopo la scarcerazione,[4] che ebbe grande popolarità ed esercitò notevole influenza sul movimento risorgimentale. Metternich (la paternità della frase non è certa, come molte citazioni in tutta la storia dell'umanità, in particolare se utilizzate a fini di propaganda o in periodi bellici) ammise che «il libro danneggiò l'Austria più di una battaglia persa»[5]. Pellico scrisse anche le Memorie dopo la scarcerazione, testo andato perduto.
Dopo il ritorno alla libertà (1830), Pellico pubblicò altre tragedie: Gismonda da Mendrisio, Leoniero, Erodiade, Tommaso Moro e Corradino. Pubblicò anche il libro morale I doveri degli uomini (1834) e Poesie di genere romantico. Venne assunto dai marchesi di Barolo Carlo Tancredi Falletti e Giulia Colbert[6] (ai quali fu presentato da Cesare Balbo) e rimase a Palazzo Barolo fino alla morte. Nel 1838 re Carlo Alberto di Savoia lo beneficiò con una pensione annua di 600 lire, collaborando alle loro attività benefiche e religiose. Nel 1851 Pellico e Giulia Colbert Faletti entrarono nel laicato francescano come terziari.
Silvio Pellico morì il 31 gennaio 1854. È sepolto nel cimitero monumentale di Torino (campo primitivo Ovest, edicola n. 266).
Silvio Pellico ebbe due storie d'amore importanti nella sua vita[7]. La prima fu con l'attrice Carlotta Marchionni: la relazione, contrastata dalla famiglia di Pellico (che non voleva vederlo unito a un'attrice) e sofferta (perché all'inizio non ricambiata), si concluse bruscamente nell'ottobre del 1820 a causa dell'arresto dello scrittore[8]. La seconda fu con la nobildonna Cristina Archinto Trivulzio: Pellico si innamorò della dama nell'estate del 1819, ma ella sposò nel novembre dello stesso anno il conte milanese Giuseppe Archinto[9]. I due innamorati si rividero solamente nel 1836[10], ma dovettero passare altri 11 anni prima di ritrovarsi definitivamente.
Durante la prigionia in carcere (durata dal 1820 al 1830) iniziò per Silvio Pellico un periodo di profonda riflessione personale che lo portò a riabbracciare la fede cristiana, che aveva abbandonato durante il periodo francese trascorso a Lione. Un compagno di prigionia, il conte Antonio Fortunato Oroboni[11] lo avvicinò nella fede religiosa.
«"E se, per accidente poco sperabile, ritornassimo nella società” diceva Oroboni “saremmo noi così pusillanimi da non confessare il Vangelo? da prenderci soggezione, se alcuno immaginerà che la prigione abbia indebolito i nostri animi, e che per imbecillità siamo divenuti più fermi nella credenza?" "Oroboni mio” gli dissi “la tua dimanda mi svela la tua risposta, e questa è anche la mia. La somma delle viltà è d'esser schiavo de' giudizi altrui, quando hassi la persuasione che sono falsi. Non credo che tal viltà né tu né io l'avremmo mai.»
Durante i lunghi dieci anni di prigionia, il Pellico partecipò regolarmente alla messa domenicale. Dal carcere scrisse al padre nel 1822: Tutti i mali mi sono diventati leggeri dacché ho acquistato qui il massimo dei beni, la religione, che il turbine del mondo m'aveva quasi rapito[12]. Pellico ringraziò la Provvidenza dedicandole le ultime righe de Le mie prigioni:
«"Ah! delle mie passate sciagure e della contentezza presente, come di tutto il bene e il male che mi sarà ancora serbato, sia benedetta la Provvidenza, della quale gli uomini e le cose, si voglia o non si voglia, sono mirabili stromenti [sic] ch'ella sa adoprare a fini degni di sé.»
La prima tragedia di successo del Pellico fu la Francesca da Rimini, composta tra il 1813 e il 1815 e rappresentata per la prima volta al Teatro Re di Milano il 18 agosto 1815 con Luigi Domeniconi nella parte di Paolo e Carlotta Marchionni nella parte di Francesca[13]. Il testo è ispirato all'episodio dantesco, ma con caratteri nuovi, presentando alcune delle caratteristiche della tragedia romantica nelle tematiche patriottiche e sentimentali. La tragedia ebbe diffusione non solo in Italia, ma anche in Europa, con traduzioni in francese e in inglese[14].
Prima della Francesca, Silvio Pellico aveva composto un Turno ed una Laodamia, di cui parla nelle lettere agli amici Foscolo e Stanislao Marchisio, i cui manoscritti sono conservati attualmente nell'archivio della rivista La Civiltà Cattolica. Aveva inoltre lavorato al romanzo storico Cola di Rienzo, che lo impegnò particolarmente e il cui manoscritto è stato recuperato nell'archivio de La Civiltà Cattolica e pubblicato nel 1963 a cura di Mario Scotti.[15] Nel 1820 Pellico pubblicò la tragedia di ambientazione medievale Eufemio da Messina.
Negli anni del processo Pellico compose alcuni poemetti di argomento medievale e altre tragedie, che vennero pubblicate a Torino tra il 1830 e il 1832. Di queste andarono, però, in scena solo Ester d'Engaddi e Gismonda da Mendrisio nelle interpretazioni di Amalia Bettini e Carlotta Marchionni. Entrambe, però, dopo poche rappresentazioni andarono incontro al divieto posto dalla censura, una difficoltà, unita all'insuccesso del Corradino del 1834[16]. Nei tre anni in cui non scrisse romanzi né tragedie, Pellico compose un'autobiografia di cui restano solo alcuni frammenti conservati nell'archivio storico del comune di Saluzzo e numerose cantiche, raccolte in due volumi del 1837 intitolati "Poesie inedite". A questi volumi seguì una nuova pausa nel lavoro letterario coincidente con dei lutti personali, dalla morte dei genitori e del fratello fino alla perdita improvvisa del marchese Tancredi Di Barolo.
Nell'inverno 1830/31 Pellico aveva lavorato anche ad un romanzo: Raffaella, o Rafaella, una storia di due amici coinvolti nelle lotte medievali tra papato ed impero in Piemonte, contenente diverse allusioni politiche ed autobiografiche. L'opera venne pubblicata solo postuma, con un finale non composto dall'autore, ma aggiunto per dare una conclusione alla vicenda con un intento morale[17].
Molte istituzioni portano il nome di Silvio Pellico, ispirate dall'amore per la patria e la fede che caratterizzò la vita dello scrittore. Tra esse, il Liceo Classico di Cuneo, l'istituto professionale per il commercio di Saluzzo (CN), una scuola media a La Spezia, una scuola media di Chioggia (VE), una scuola media a Camerano (AN), una scuola elementare a Torino nel quartiere di San Salvario, una a Udine, una a Santhià (VC), una ad Arluno (MI), una a Carpeneto (AL), una a Pachino (SR) e una a Serramanna (VS) ed anche alcuni teatri, come quelli di Trieste e di Trecate (NO). Anche la scuola media di Lettere, in provincia di Napoli, è intitolata a Silvio Pellico. A Imola e Lugo (nella diocesi di Imola) i due circoli cattolici sono intitolati alla memoria di Silvio Pellico. Ad Ala (TN) è intitolato a Silvio Pellico il convitto comunale.
Nelle principali città italiane esiste una via dedicata a Silvio Pellico.