Florin Curta (15 gennaio 1965) è un archeologo e storico statunitense nato in Romania; è professore di storia e archeologia medievale presso l'Università della Florida.
Curta si è specializzato nel campo della storia dei Balcani ed è professore di storia medievale e archeologia presso l'Università della Florida a Gainesville, in Florida.[1] Il primo libro di Curta, The Making of the Slavs. History and Archaeology of the Lower Danube Region, A.D. 500-700, è stato candidato nel 2002 per il Choice Outstanding Academic Title e vinse il premio Herbert Baxter Adams da parte dell'American Historical Association nel 2003.[2] Curta è il caporedattore della serie della casa editrice Brill East Central and Eastern Europe in the Middle Ages, 450-1450.[2] Rientra tra i membri dell'Institute for Advanced Study, della School of Historical Studies, dell'Università di Princeton (primavera 2007) ed è stato visiting fellow del Corpus Christi College (2015). Si dichiara di fede ortodossa.[3]
Ispirato da Reinhard Wenskus e dalla Scuola di Storia di Vienna, Curta è noto per il suo utilizzo dell'approccio post-processuale e post-strutturalista nello spiegare l'etnogenesi e le migrazioni degli Slavi; il suo approccio si pone in contrasto con la visione storiografica tradizionale e l'approccio, da lui ritenuto semplicistico, storico-culturale adottato in ambito archeologico.[4][5][6][7] Curta si oppone alle teorie secondo cui gli Slavi si sarebbero sparsi per l'Europa orientale e centrale partendo da un luogo specifico, il cosiddetto Urheimat, e nega l'esistenza dello stesso. Il suo lavoro rifiuta l'idea delle lingue slave come elemento unificante degli Slavi e non ritiene la cultura di Praga la prova archeologica inoppugnabile dell'esistenza dei Protoslavi. Dal canto suo, Curta vede nell'etnogenesi slava «un processo di auto-rappresentazione» e avanza perciò un'ipotesi alternativa, ritenendo che le singole tribù slave compresero la necessità di una migliore organizzazione politica e militare e iniziarono a interagire tra di loro per via dei fattori esterni, ovvero la minaccia costituita dall'«irrigidimento del limes romano-danubiano attuato dall'imperatore bizantino Giustiniano tramite il potenziamento del sistema difensivo e in gran parte ultimato nel 554».[4][8][9][10][11][12][13] Le congetture di Curta sono state accolte con sostanziale disaccordo e «severe critiche sia in generale sia nei dettagli» da altri archeologi, storici, linguisti ed etnologi. I giudizi negativi si sono concentrati sull'arbitraria selezione di Curta di dati e siti di interesse storico e archeologico, oltre che sulle interpretazioni cronologiche, ritenute pre-concettualmente volte a sostenere le sue conclusioni e non esaustive per spiegare l'affermazione e il processo di espansione degli Slavi e della cultura slava.[14][15][16][17][18][19][20] I punti dolenti delle analisi di Curta hanno riguardato pure la sua selezione delle fonti, in quanto essa è stata ritenuta parziale e strumentale per avvalorare la sua teoria, ritenuta traballante quando spiega la diffusione delle lingue slave nell'Europa centro-orientale.[10][20][21][22] Ad ogni modo, il lavoro di Curta ha acceso un nuovo dibattito scientifico e ha trovato il sostegno da parte di quegli autori che adoperano un approccio simile, come Walter Pohl e Danijel Dzino.[14][23]