Disegno dell'occhio di Horo

L'Occhio di Horus[1] è nella religione egizia il simbolo di protezione, della prosperità, del potere regale e della buona salute, ed è personificato dalla dea Wadjet (o Wedjat,[2][3][4] Uadjet, Wedjoyet, Edjo o Uto). In seguito al sincretismo tra Horus e Ra nella divinità di Ra-Harakhti, l'Occhio di Horus viene associato all'Occhio di Ra[5], di cui diventa sinonimo[6], nonostante in origine i due occhi facessero riferimento a rappresentazioni grafiche ben distinte.

Lingua egizia

Rappresentazione dell''Occhio di Ra propriamente inteso

Nella lingua egizia il geroglifico

wU28AtD10

wḏȝ - udjat ha il significato di "preservare"[7] o "protezione".[8]

Mito

Secondo la mitologia egizia, Horus volle vendicare l'uccisione del padre Osiride, perpetrata dal fratello di quest'ultimo, Seth, ma nello scontro con lo zio perse l'occhio sinistro, che si divise in sei parti.[9]

In una forma più recente del mito, l'occhio di Ra, smarrito per una ragione non nota, sarebbe stato lo scopo di una ricerca affidata a Shu e Tefnet[10]. A causa del protrarsi nel tempo di tale ricerca il dio del sole si sarebbe provvisto di un nuovo occhio che al ritorno del rivale non volle cedergli il suo precedente ruolo. Allora Ra avrebbe trasformato l'occhio in un serpente posto sulla sua fronte, l'ureo.[11]

Amuleto

Amuleto udjat.

L'amuleto ebbe grande importanza e diffusione nella civiltà e venne posto, di regola, all'interno dei bendaggi che avvolgevano il corpo del defunto, oltre che su rilievi, incisioni e papiri, in quanto simbolo di rigenerazione. Graficamente è costituito da un occhio sovrastato dal sopracciglio e sotto da una spirale, per alcuni il tratto residuo del piumaggio del falco, animale del quale Horus prende le sembianze, ma anche evoluzione dei segni di lacrime.

L'amuleto era portato da uomini, divinità o animali sacri[12]; poteva essere dipinto sulle navi come segno apotropaico, sui fianchi dei sarcofagi affinché il defunto potesse vedere nell'aldilà[12] o sui muri come difesa dai ladri[13].

Aritmetica

L'occhio di Horo come unità di misura.

Nella matematica egizia le parti costituenti l'udjat servivano a scrivere le frazioni, aventi il numero 64 come denominatore comune[14]. Nella vita quotidiana, era usato come "traduzione grafica delle unità di misura dei cereali"[15]: ciascuna parte aveva un valore di frazione dell'intero, così come di rappresentazione dei sensi umani. Nello specifico:

Sommando le varie parti si ha un totale di 6364: si riteneva che il restante 164 fosse stato aggiunto dal dio Thot, sotto forma di poteri magici[15].

D11
D12
D13
D14
D15
D16

Note

  1. ^ Alan Gardiner, Egyptian Grammar, Oxford 1927-1994, p. 451; Maria Carmela Betrò, Geroglifici, Milano 1995, p. 55.
  2. ^ Tanja Pommerening, Die altägyptischen Hohlmaße, in Studien zur Altägyptischen Kultur, Beiheft 10, Hamburg, Helmut Buske Verlag, 2005, ISBN 9783875484113.
  3. ^ Marilyn Stokstad, Art of Ancient Egypt, in Art History, vol. 1, 3ª ed., Upper Saddle River, N.J., Pearson Prentice Hall, 2007, ISBN 9780131743205, OCLC 238783244.
  4. ^ David P. Silverman, Egyptian Art, in Ancient Egypt, Duncan Baird Publishers, 1997, p. 228, ISBN 9780195212709.
  5. ^ Alessandro Bongioanni e Maria Croce (a cura di), The Treasures of Ancient Egypt: From the Egyptian Museum in Cairo, Universe Publishing / Rizzoli Publications Inc., 2003, p. 622. Secondo gli autori, 'Udjat' era il termine che indicava gli amuleti con il disegno dell'occhio di Horo.
  6. ^ Wörterbuch der ägyptischen Sprache 1, 268.13.
  7. ^ Papyrus de Kahun, 29, 41-42 : Griffith, The Petrie Papyri, Hieratic Papyrus from Kahun and Gurob, Londres, 1897-1898.
  8. ^ Coffin Texts IV, 246/247a-250/251b, B9Cb.
  9. ^ Piergiorgio Odifreddi, Il museo dei numeri, Milano, Rizzoli, 2015 [2014], p. 38, ISBN 978-88-17-08217-4.
  10. ^ Eye of Ra su Ancient Egypt Online
  11. ^ Miti dell'antico Egitto, Giunti Editore, 2003, ISBN 8844027380
  12. ^ a b Làszlò Kàkosy, p. 83.
  13. ^ Làszlò Kàkosy, p. 86.
  14. ^ James P. Allen, Middle Egyptian, Cambridge University Press (2004), p. 102
  15. ^ a b Maria Carmela Betrò, Geroglifici, Milano 1995, p. 55.

Bibliografia

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