Presidente della Repubblica Italiana | |
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Stendardo presidenziale italiano | |
Sergio Mattarella, attuale Presidente della Repubblica Italiana | |
Stato | ![]() |
Tipo | Capo dello Stato |
In carica | Sergio Mattarella |
da | 3 febbraio 2015 |
Sigla | PdR |
Istituito | 1º gennaio 1948 |
Predecessore | Capo provvisorio dello Stato |
Presidente supplente | Presidente del Senato |
Eletto da | Parlamento e delegati regionali |
Nominato da | Parlamento della Repubblica Italiana |
Ultima elezione | 29-31 gennaio 2015 |
Durata mandato | 7 anni |
Bilancio | 230.000 €/annui |
Sede | Palazzo del Quirinale, Roma |
Indirizzo | Piazza del Quirinale |
Sito web | |
Il Presidente della Repubblica Italiana, nel sistema politico italiano, è il capo dello Stato italiano, garante della Costituzione e rappresentante dell'unità nazionale. Inoltre egli non è a capo di un potere particolare (legislativo, esecutivo o giudiziario), ma li coordina tutti e tre; ovvero compie atti che riguardano ciascuno dei tre poteri, come stabilito dalla Costituzione italiana.
Il Presidente della Repubblica è un organo costituzionale, eletto dal Parlamento in seduta comune integrato dai delegati delle Regioni (ovvero tre consiglieri per regione, ad eccezione della Valle d'Aosta, che ne nomina uno solo, per un totale di 58) e rimane in carica per un periodo di sette anni, detto mandato. La Costituzione stabilisce che può essere eletto presidente chiunque, con cittadinanza italiana, che abbia compiuto i cinquanta anni di età e che goda dei diritti civili e politici.
La residenza ufficiale del presidente della Repubblica è il Palazzo del Quirinale (sull'omonimo colle di Roma) che per metonimia indica spesso la stessa presidenza.
Ai sensi dell'art. 83 della Costituzione:
«Il Presidente della Repubblica italiana è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri. All'elezione partecipano tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze. La Valle d'Aosta ha un solo delegato. |
I requisiti di eleggibilità, contenuti nel primo comma dell'art. 84 della Costituzione, sono:[1]
La Costituzione prevede inoltre l'incompatibilità con qualsiasi altra carica.[1]
L'elezione del presidente della Repubblica avviene su iniziativa del presidente della Camera dei deputati e la Camera dei deputati è la sede per la votazione. Il presidente della Camera convoca la seduta comune trenta giorni prima della scadenza naturale del mandato in corso. Nel caso di impedimento permanente, di morte o di dimissioni del presidente in carica, il presidente della Camera convoca la seduta comune entro quindici giorni. Nel caso le camere siano sciolte o manchino meno di tre mesi alla loro cessazione, l'elezione del presidente della Repubblica avrà luogo entro il quindicesimo giorno a partire dalla riunione delle nuove camere. Nel frattempo sono prorogati i poteri del presidente in carica.[2] Quest'ultima previsione serve a svincolare l'elezione del nuovo presidente della Repubblica dalla conflittualità tipica del periodo pre-elettorale e a fare in modo che il nuovo presidente risulti eletto da un Parlamento completamente legittimato.[3]
La previsione di una maggioranza qualificata per i primi tre scrutini e di una maggioranza assoluta per gli scrutini successivi serve a evitare che la carica sia ostaggio della maggioranza politica. La carica rinvia infatti a un ruolo indipendente dall'indirizzo della maggioranza politica[3] e un mutamento dei quorum deliberativi (ipotizzato in sede di revisione costituzionale) è stato per questo oggetto di rilievi in dottrina.[4]
Il presidente assume l'esercizio delle proprie funzioni solo dopo aver prestato giuramento innanzi al Parlamento in seduta comune (ma senza i delegati regionali), al quale si rivolge, per prassi, tramite un messaggio presidenziale.[3]
Il mandato dura sette anni a partire dalla data del giuramento.[3] La previsione di un settennato impedisce che un presidente possa essere rieletto dalle stesse Camere, che hanno mandato quinquennale, e contribuisce a svincolarlo da eccessivi legami politici con l'organo che lo vota.
La Costituzione Italiana non prevede un limite al numero di mandati per quanto concerne la carica di presidente della Repubblica. Il primo caso di rielezione del presidente uscente è datato 20 aprile 2013 con l'elezione di Giorgio Napolitano.[5]
Oltre che alla naturale scadenza di sette anni, il mandato può essere interrotto per:
I poteri del presidente sono prorogati nel caso le camere siano sciolte o manchino meno di tre mesi al loro scioglimento; vengono prorogati fino all'elezione che dovrà aver luogo entro quindici giorni dall'insediamento delle nuove Camere.[2]
In caso di impedimento temporaneo, dovuto a motivi transitori di salute o a viaggi all'estero, le funzioni vengono assunte temporaneamente dal presidente del Senato.
Gli ex presidenti della Repubblica assumono per diritto il nome e la carica di presidenti emeriti della Repubblica (istituita con i decreti del Presidente del Consiglio dei ministri del 23 luglio 1998 e del 25 settembre 2001) e assumono di diritto la carica, salvo rinuncia, di senatore di diritto e a vita. (art. 59 Cost.)
La Costituzione, oltre a riconoscere alla carica la funzione di rappresentanza dell'unità del Paese con tutte le prerogative tipiche del capo di Stato a livello di diritto internazionale, pone il presidente al vertice della tradizionale tripartizione dei poteri dello Stato. Espressamente previsti sono i poteri di:
Conferisce inoltre le onorificenze della Repubblica Italiana tramite decreto presidenziale (art. 87).
La Costituzione (art. 89) prevede che ogni atto presidenziale per essere valido debba essere controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità, e richiede la controfirma anche del presidente del Consiglio dei ministri per ogni atto che ha valore legislativo o nei casi in cui ciò viene previsto dalla legge (come avviene per esempio per la nomina dei giudici costituzionali, dei senatori a vita o per i messaggi alle Camere).
Come stabilisce l'art. 90 della Costituzione, il presidente non è responsabile per gli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne per alto tradimento o per attentato alla Costituzione, per cui può essere messo sotto accusa dal Parlamento. L'assenza di responsabilità, principio che discende dall'irresponsabilità regia nata con le monarchie costituzionali (nota sotto la formula: The King can do no wrong, "il Re non può sbagliare"), gli consente di poter adempiere alle sue funzioni di garante delle istituzioni stando al di sopra delle parti. La controfirma del ministro evita che si crei una situazione in cui un potere non sia soggetto a responsabilità: il ministro che partecipa, firmando, all'atto del presidente potrebbe essere chiamato a risponderne davanti al Parlamento o davanti ai giudici se l'atto costituisse un illecito.
La controfirma assume diversi significati a seconda che l'atto del presidente della Repubblica sia sostanzialmente presidenziale (ovvero derivi dai "poteri propri" del presidente e non necessitano della "proposta" di un ministro) oppure sostanzialmente governativi (come si verifica nella maggior parte dei casi). Nel primo caso la firma del ministro accerta la regolarità formale della decisione del capo dello Stato e quella del presidente ha valore decisionale, nel secondo quella del presidente accerta la legittimità dell'atto e quella del ministro ha valore decisionale.
Questioni in dottrina nascono in merito alla distinzione tra atti sostanzialmente presidenziali e atti formalmente presidenziali.
Un vero e proprio conflitto si è creato in merito alla titolarità del potere di grazia e al ruolo del ministro della Giustizia, tra l'allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e l'ex guardasigilli Castelli: la Corte costituzionale nel maggio 2006 ha stabilito che il potere di concedere la grazia è prerogativa presidenziale e che il ministro della Giustizia è tenuto a controfirmare il decreto di concessione, pur mantenendo questi un controllo sul requisito delle "ragioni umanitarie" per la concessione della grazia.
Al fine di garantire la sua autonomia e libertà, come si è visto, è riconosciuta al presidente della Repubblica la non-responsabilità per qualsiasi atto compiuto nell'esercizio delle sue funzioni. Le uniche eccezioni a questo principio si configurano nel caso che abbia commesso due reati esplicitamente stabiliti dalla Costituzione: l'alto tradimento (cioè l'intesa con Stati nemici) o l'attentato alla Costituzione (cioè una violazione delle norme costituzionali tale da stravolgere i caratteri essenziali dell'ordinamento al fine di sovvertirlo con metodi non consentiti dalla Costituzione).
In tali casi il presidente viene messo in stato di accusa dal Parlamento riunito in seduta comune con deliberazione adottata a maggioranza assoluta, su relazione di un Comitato formato dai componenti della Giunta del Senato e da quelli della Camera competenti per le autorizzazioni a procedere. Una volta deliberata la messa in stato d'accusa, la Corte Costituzionale (integrata da 16 membri esterni) ha la facoltà di sospenderlo in via cautelare.
Nella storia repubblicana si è giunti in soli due casi alla richiesta di messa in stato d'accusa, nel dicembre 1991 contro il presidente Cossiga e nel gennaio 2014 contro il presidente Napolitano; entrambi i casi si sono chiusi con la dichiarazione di manifesta infondatezza delle accuse da parte del Comitato Parlamentare.[7] Per quanto riguarda Cossiga, tale dichiarazione giunse quando il settennato si era già concluso. Per i reati commessi al di fuori dello svolgimento delle sue funzioni istituzionali il presidente è responsabile come qualsiasi cittadino. In concreto, però, una parte della dottrina ritiene esista improcedibilità in ambito penale nei confronti del presidente durante il suo mandato; nel caso del presidente Oscar Luigi Scalfaro (sotto accusa per peculato), di fronte al suo rifiuto di dimettersi e alla mancanza di iniziative da parte del parlamento, il processo fu dichiarato improcedibile.
Il presidente della Repubblica può dar vita a illeciti compiuti al di fuori dell'esercizio delle sue funzioni, e in questi casi varrà l'ordinaria responsabilità giuridica. In particolare, se è difficile immaginare un vero e proprio illecito amministrativo (coincidente con un reato funzionale), non si può invece escludere che il presidente sia chiamato, sul piano civile, a risarcire un danno, per esempio per un incidente stradale.
Secondo parte della dottrina, non sarebbe accettabile la tesi (rigettata a suo tempo in Assemblea Costituente da Umberto Terracini) che egli risponda di eventuali comportamenti criminosi solo alla fine del settennato: si dimetta o meno, egli deve rispondere subito per i reati di cui è accusato, pena l'ammissione di un privilegio che romperebbe con gli artt. 3 e 112 della Costituzione. Altra autorevole dottrina è favorevole al giudizio alla fine del settennato (sempre che nel frattempo non siano decorsi i termini di prescrizione), non escludendo le dimissioni del Capo dello Stato, sia pur solo qualora il reato commesso sia particolarmente grave.
Il cosiddetto "lodo Schifani" (legge n. 140/2003) disponeva che i presidenti della Repubblica, del Consiglio, della Camera, del Senato e della Corte costituzionale non potessero essere sottoposti a procedimenti penali per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l'assunzione della carica o della funzione fino alla cessazione delle medesime: ne discendeva la sospensione dei relativi processi penali in corso in ogni fase, stato o grado. Questa legge è stata dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 24/2004, per violazione degli articoli 3 e 24 della Costituzione. Un provvedimento simile, con alcune correzioni dovute ai rilievi della Corte costituzionale, denominato "Lodo Alfano", è stato proposto e approvato nel 2008, durante la XVI Legislatura, e anch'esso dichiarato illegittimo con la sentenza n. 262/2009[8] per violazione degli articoli 3 e 138 della Costituzione.[9][10]
Nella prassi ogni presidente ha interpretato in modo diverso il proprio ruolo e la propria sfera di influenza, con maggiore o minore attivismo; in generale la potenziale rilevanza delle prerogative a essi conferite è emersa soprattutto nei momenti di crisi dei partiti e delle maggioranze di governo, rimanendo più in ombra nelle fasi di stabilità politica. Tra tali prerogative, il potere di rinvio - connesso alla funzione di promulgazione delle leggi - è uno degli strumenti più utili allo scopo.
La moral suasion[11] sotto la presidenza Ciampi si esercitò facendo conoscere innanzi tempo il suo avviso, ad esempio lasciando filtrare indiscrezioni di stampa sui messaggi che avrebbe potuto inviare alle Camere innanzi a disegni di legge di dubbia costituzionalità (...) Più frequentemente il potere di rinvio previsto dall'art. 74 Cost. non venne esercitato grazie a un gentlemen agreement in virtù del quale venivano apportare delle modifiche in corso d’opera, previamente concordate fra gli organi tecnici del Quirinale e di Palazzo Chigi. Non si trattava di una procedura del tutto inedita, dato che già Einaudi - il cui pensiero era ben noto a Ciampi che ne aveva letto Le Prediche inutili - aveva fatto valere le sue perplessità su disegni di legge di iniziativa governativa in sede di autorizzazione per la relativa presentazione al Parlamento.[12]
In stretta connessione con quest'approccio "interventista" è emersa anche la critica, rara in passato, alla natura super partes del Capo dello Stato, negata da chi vi ha visto comunque l'espressione di un'esperienza politica riconosciuta (e premiata) dalla maggioranza che l'ha votato. A tale critica ha risposto il presidente Giorgio Napolitano, affermando anzitutto che "quella del Capo dello Stato, potere neutro al di sopra delle parti e fuori della mischia politica, non è una finzione, è la garanzia di moderazione e di unità nazionale posta consapevolmente nella nostra Costituzione come in altre dell'Occidente democratico". Ciò non va confuso con l'estrazione politica di provenienza, come ha precisato lo stesso Napolitano: "Tutti i miei predecessori - a cominciare, nel primo settennato, da Luigi Einaudi - avevano ciascuno la propria storia politica: sapevano, venendo eletti Capo dello Stato, di doverla e poterla non nascondere, ma trascendere. Così come ci sono stati presidenti della Repubblica eletti in Parlamento da una maggioranza che coincideva con quella di governo, talvolta ristretta o ristrettissima, o da una maggioranza eterogenea, e contingente. Ma nessuno di loro se ne è fatto condizionare".[13]
Al pari degli altri organi costituzionali, anche la presidenza della Repubblica dispone di uffici e servizi dotati di una peculiare autonomia. Al vertice degli uffici della presidenza è posto il segretario generale, nominato e revocato dal presidente in carica.
Nota: tradizionalmente, i presidenti non hanno mai fatto parte di alcun partito politico nel corso del loro mandato, in modo da essere considerati al di sopra delle parti. I partiti indicati sono quelli a cui il presidente apparteneva al momento del suo insediamento.
Nº | Presidente (nascita-morte) |
Scrutini | Percentuale | Mandato | Partito di provenienza | Stendardo | Senatore a vita fino al | ||
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Inizio | Fine | ||||||||
1º | Enrico De Nicola (1877-1959) |
1 | 72,8% (405 voti su 556)[14] |
1º gennaio 1948[15] | 12 maggio 1948 | Partito Liberale Italiano | 1º ottobre 1959 | ||
2º | Luigi Einaudi (1874-1961) |
4 | 57,6% (518 voti su 900)[14] |
12 maggio 1948 | 11 maggio 1955 | Partito Liberale Italiano | 30 ottobre 1961 | ||
3º | Giovanni Gronchi (1887-1978) |
4 | 78,1% (658 voti su 843)[14] |
11 maggio 1955 | 11 maggio 1962 | Democrazia Cristiana | 17 ottobre 1978 | ||
4º | Antonio Segni (1891-1972) |
9 | 51,9% (443 voti su 854)[14] |
11 maggio 1962 | 6 dicembre 1964[16] | Democrazia Cristiana | 1º dicembre 1972 | ||
5º | Giuseppe Saragat (1898-1988) |
21 | 67,1% (646 voti su 963)[14] |
29 dicembre 1964 | 29 dicembre 1971 | Partito Socialista Democratico Italiano | 11 giugno 1988 | ||
6º | Giovanni Leone (1908-2001) |
23 | 51,4% (518 voti su 1008)[14] |
29 dicembre 1971 | 15 giugno 1978[16] | Democrazia Cristiana | 9 novembre 2001[17] | ||
7º | Sandro Pertini (1896-1990) |
16 | 82,3% (832 voti su 1011)[14] |
9 luglio 1978 | 29 giugno 1985[18] | Partito Socialista Italiano | 24 febbraio 1990 | ||
8º | Francesco Cossiga (1928-2010) |
1 | 74,3% (752 voti su 1011)[14] |
3 luglio 1985 | 28 aprile 1992[16] | Democrazia Cristiana | 17 agosto 2010 | ||
9º | Oscar Luigi Scalfaro (1918-2012) |
16 | 66,5% (672 voti su 1011)[14] |
28 maggio 1992 | 15 maggio 1999[18] | Democrazia Cristiana | 29 gennaio 2012 | ||
10º | Carlo Azeglio Ciampi (1920-2016) |
1 | 70,0% (707 voti su 1010)[14] |
18 maggio 1999 | 15 maggio 2006[18] | Indipendente | 16 settembre 2016 | ||
11º | Giorgio Napolitano (1925) |
4 | 53,8% (543 voti su 1009)[14] |
15 maggio 2006 | 22 aprile 2013[19] | Democratici di Sinistra | in carica[20] | ||
6 | 73,2% (738 voti su 1007)[14] |
22 aprile 2013 | 14 gennaio 2015[16] | Indipendente | |||||
12º | Sergio Mattarella (1941) |
4 | 65,9% (665 voti su 1009)[21] |
3 febbraio 2015 | in carica | Indipendente |
N° | Fotografia | Segretario generale | Insediamento | Fine mandato | Presidente della Repubblica |
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1 | Ferdinando Carbone | 1948 | 1954 | Enrico De Nicola | |
Luigi Einaudi | |||||
2 | Nicola Picella | 1º aprile 1954 | 1955 | ||
3 | Oscar Moccia | 1955 | 1962 | Giovanni Gronchi | |
4 | Paolo Strano | 1962 | 20 gennaio 1965 | Antonio Segni | |
Giuseppe Saragat | |||||
2 | Nicola Picella | 20 gennaio 1965 | 19 luglio 1976 | ||
Giovanni Leone | |||||
5 | Franco Bezzi | 19 luglio 1976 | 14 luglio 1978 | ||
6 | Antonio Maccanico | 14 luglio 1978 | 24 aprile 1987 | Sandro Pertini | |
Francesco Cossiga | |||||
7 | Sergio Berlinguer | 24 aprile 1987 | 28 maggio 1992 | ||
8 | Gaetano Gifuni | 28 maggio 1992 | 15 maggio 2006 | Oscar Luigi Scalfaro | |
Carlo Azeglio Ciampi | |||||
9 | Donato Marra | 15 maggio 2006 | 16 febbraio 2015 | Giorgio Napolitano | |
10 | Ugo Zampetti | 16 febbraio 2015 | in carica | Sergio Mattarella |
Il valore aggregato degli stanziamenti per la presidenza della Repubblica è contabilizzato in un'apposita voce di costo nel bilancio dello Stato. A differenza di organi paragonabili di altri stati, gli stanziamenti per la presidenza della Repubblica italiana includono le pensioni del personale in quiescenza. Al netto dei trattamenti pensionistici (oltre 90 milioni), gli stanziamenti sono in linea con quelli di altri paesi europei. Inoltre, la presidenza della Repubblica italiana mantiene un patrimonio artistico di eccezionale valore, peraltro reso fruibile al pubblico.[22]
Di seguito, si riporta il totale degli stanziamenti per la presidenza della Repubblica, in milioni di euro:
Formalmente la residenza ufficiale del presidente della Repubblica Italiana è il palazzo del Quirinale, tuttavia non tutti i presidenti scelsero di abitare in questo luogo usandolo più che altro come ufficio. Infatti Giovanni Gronchi fu il primo presidente che nel 1955 non si trasferì stabilmente con la famiglia nel palazzo del Quirinale come anche Sandro Pertini nel 1978. La tradizione di abitare al Quirinale è stata ripresa dal presidente Oscar Luigi Scalfaro a metà del suo mandato ed è poi proseguita con i suoi successori.
Il presidente della Repubblica ha a disposizione anche la tenuta presidenziale di Castelporziano, anche se raramente viene utilizzata. Questa tenuta era la riserva di caccia della famiglia reale dei Savoia ed è stata incorporata nel patrimonio della Repubblica dopo la caduta della monarchia.
Una terza residenza del presidente è villa Rosebery, situata a Napoli e utilizzata in occasione delle visite in quella città.
Quando il Presidente effettua un volo di Stato, l'aeromobile utilizzato, solitamente fornito dal 31º Stormo dell'aeronautica militare, assume l'identificativo IAM9001.