Le novelle della Pescara
AutoreGabriele D'Annunzio
1ª ed. originale1902
Genereprose
Lingua originaleitaliano

Le novelle della Pescara è un'opera di Gabriele D'Annunzio del 1902, pubblicata dai Fratelli Treves in sei volumi.

Si tratta di racconti ambientati nell'allora paese di Pescara (divenuto capoluogo di provincia nel 1927 grazie a personalità come lo stesso D'Annunzio) e nella campagna circostante. L'opera nasce come raccolta di canti, con temi diversi, che acquisiscono unitarietà proprio in relazione all'elemento caratterizzante che è il territorio. I personaggi sono presentati come impulsivi, irruenti e talvolta feroci.

Come Verga, D'Annunzio si concentra sulle emozioni del popolo e sulle sue rivolte, ma alla descrizione delle rivendicazioni sociali preferisce studiare gli stati d'animo, le energie quasi primordiali che vengono sprigionate nel momento della protesta.

Indice delle novelle

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Volume 1
Volume 2
Volume 3
Volume 4
Volume 5
Volume 6

Descrizione delle novelle

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L'ordine seguente delle novelle è preso dalla riedizione dell'opera da parte di Mondadori negli anni '30, ripubblicata nel 1969 nella collana "Oscar Mondadori", che per la distribuzione riporta alcune differenze rispetto all'edizione originale.

Il quartiere Porta Nuova di Pescara nel primo '900
Il ponte di ferro sul fiume Pescara

Nel 1873 Anna si ammala per l'ultima volta, e durante l'orazione nella chiesa, essa cade in estasi mistica. La notizia della vita di rinunce della santa donna si sparge, e presto Anna inizia ad essere venerata, fino alla morte nel 1881.

Nella novella successiva, data la deposizione "simbolica" del santo patrono, viene celebrata una festa in onore di San Gonselvo, con offerte da parte del popolo. Un cafone soprannominato "Ummalidò", si inginocchia davanti alla statua, ha una mano molto danneggiata per lo scontro di pochi giorni prima, e dato che è perduta, il cafone col coltello se la taglia di netto, e l'offre in dono al santo, gridando "Sande Gunzelve, a te le offre!".

Casa natale di Gabriele d'Annunzio a Pescara
Il fiume presso Pescara

La genesi

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La raccolta è il frutto della rielaborazione di prose già pubblicate da D'Annunzio, come Terra vergine (1882), Il libro delle vergini (1884) e San Pantaleone (1886); in sostanza di si tratta della ripubblicazione di quasi tutte le novenne del San Pantaleone con alcune correzioni, più l'aggiunta del racconto iniziale de La vergine Orsola, preso dal "Libero delle vergini", e ampiamente rielaborato. L'ispirazione per alcune storie proviene dalla lettura dei massimi autori dell'epoca come Gustave Flaubert per La vergine Anna, ispirata al racconto Un coeur simple, mentre per Guy de Maupassant, d'Annunzio ha rielaborato Il traghettatore prendendolo da L'abandonné, mentre Il cerusico di mare è preso da En mer, mentre il tema burlesco e semi-fantasioso de La fattura è ripreso dal "Bulfamacco" di Giovanni Boccaccio.

In sostanza l'antologia delle Novelle intende essere una dichiarazione di D'Annunzio di aver concepito un modello da seguire di prosa moderna in forma di racconti bravi, concepiti dalla sapiente mescolanza di naturalismo tratto da Giovanni Verga, e dal classicismo di Giosuè Carducci, svuotato però dei temi civili e melancolici delle Odi barbare o dei Juvenilia.

Il verismo di D'Annunzio

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Gabriele d'Annunzio

Mentre Giovanni Verga nei suoi bozzetti siciliani di Vita dei campi e Novelle rusticane, intendeva esprimere un programma ben preciso, ossia una sorta di ordine naturale delle cose che determinata il destino le diverse classi sociali della sua Sicilia, per D'Annunzio tutte queste tematiche della forma inerente al soggetto, della tecnica dell'impersonalità e della regressione del narratore non hanno valore. Egli si limita a creare una nuova forma di scrittura che abbia come tema le disgrazie dei contadini, di personaggi in grave situazione economica, di sciancati, ammalati, innamorati e figuri senza scrupoli e malvagi, più o meno seguendo la linea del Verga sul fatto che nel gruppo dei "vinti" chi prova a voler scavalcare il suo stato sociale subisce un destino amaro e tragico, ma D'Annunzio usa lo stile alto di Carducci riguardo alla descrizione della natura e dell'anatomia dei personaggi, per cui prevale la similitudine insieme alla metafora, che quasi sempre abbruttisce ancora di più la natura dei personaggi miserevoli, e li metamorfizza in forme animalesche con istinti bestiali e triviali.

Giovanni Verga

Mentre Verga intendeva muovere il lettore a pietà per i suoi personaggi, descrivendo una condizione sì storica degli strati più disastrati della società siciliana, ma anche volendo dichiarare una protesta contro il positivismo del nord Italia, che con l'Unità nel 1861 aveva beneficiato della centralizzazione dell'economia, lasciando il sud del Paese in una condizione miserevole, senza insomma che le attese di un benessere collettivo venissero esaudite, e dunque lasciando i poveracci delle novelle verghiane alla loro medesima condizione di subordinati a massari e latifondisti, come se nulla fosse cambiato nel tempo, il D'Annunzio nelle sue novelle non intende proporre un sentimento di protesta, ma anzi si compiace nel descrivere con enfasi e particolare abbondanza di metafore la condizione miserevole dei personaggi, in qualche novelle inserendo anche soggetti di condizione sociale più elevata o borghese, come ne La morte del duca d'Ofena, o La veglia funebre, senza però esimersi dall'inserire sempre elementi e deittici inerenti alla condizione animalesca congenita del popolo abruzzese[1]: sentimenti di sopraffazione, di omicidio, di lotta, di rubare, pulsioni erotiche, indifferenza della sofferenza del prossimo, istinti vari repressi, superstizione e fanatismo religioso la fanno da padroni nelle novelle dannunziane.

Non traspare insomma una particolare originalità dai vari racconti, poiché la somiglianza delle storie, ad accezione di alcuni pezzi di bravura, sembra fotografare, non senza toni di assoluto compiacimento macabro, la condizione di vita non solo dei cosiddetti "cafoni" abruzzesi dello strato più inferiore della società, ma tutto l'Abruzzo, ossia una terra sì affascinante e poco conosciuta nei salotti di Roma che d'Annunzio frequentava già dal 1883, per cui dovette di certo approfittare delle diverse leggende che circolavano tra la gente. Oltre a ciò si consideri già il primo fenomeno del decadentismo prosastico, ossia della ricerca di uno stile elevato e interessato al particolare e all'oscuro, così come l'uso di D'Annunzio della prosa ricca di elementi carducciani, svuotati del loro valore originale, così come il futuro tema del superuomo di Nietzsche unito alla prosa decadentista, e immiserito e privato dei suoi valori filosofici originali, il tutto rivolto al solo fine della celebrazione di sé stesso e della propria personalità mediante la prosa e la poesia.
Insomma le novelle sembrano trovare, nella rielaborazione finale del 1902, il proprio termine con l'ultimo racconto de Il cerusico di mare, che ripropone sì le tematiche presenti nelle altre storie, ma la struttura è più sobria e asciutta, quasi a sintetizzare tutto il programma tematico dell'antologia.

La rielaborazione di Terra vergine (1882)

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Frontespizio originale de Il libro delle vergini pubblicato da Sommaruga nel 1884

La prima raccolta di prose, nuovo esperimento per D'Annunzio nella narrativa, fu Terra vergine, volume pubblicato da Sommaruga editore nel 1882. Si tratta dell'antologia di 9 "figurine" abruzzesi che D'Annunzio già aveva pubblicato tra il 1880 e l'81, con l'aggiunta nell'83 di "Ecloga fluviale" e "Bestiame". Si tratta dell'esperimento di moderna novellistica abruzzese meglio riuscito e immediatamente conosciuto nel panorama letterario nazionale, benché già altri autori della regione si fossero cimentati nella narrativa, come Pasquale De Virgiliis o Raffaele d'Ortenzio, con I fidanzati abruzzesi (rielaborazione del romano manzoniano), mentre Ignazio Cerasoli pubblicò il volume delle Novelle abruzzesi nel 1880.

L'attenzione di D'Annunzio alla nuova corrente letteraria che si stava formando, ossia il decadentismo, fu in un certo senso determinante, anche perché la raccolta, insieme alle Novelle della Pescara, risulterà un perfetto sperimentalismo, una costante prova di esercitazione e di allenamento per il perfezionamento dello stile aulico carducciano, del descrittivismo naturale, per la comunione panica con la natura, per gli improvvisi accessi di follia e di voluttà dei personaggi che saranno temi frequentissimi in tutta la grande opera successiva delle poesie, dei romanzi e delle tragedie teatrali. La palestra dannunziana abruzzese inizia dunque con Terra vergine, assumendo un altro aspetto stilistico momentaneamente diverso in Il libro delle vergini, per poi tornare con più furore verista di stampo verghiano nel San Pantaleone. Nella prima raccolta la natura è il vero protagonista, che sembra forgiare il destino dei protagonisti, celebrata continuamente, con incalzante verbosità e descrittivismo dal D'Annunzio, e con la tipica sensualità e vitalità giovanile. La comunione panica avviene mediante la metafora, in ciascuna novella i personaggi sono paragonati oppure narrati almeno in un preciso punto con riferimento all'animale, come al giaguaro, al cane, all'orso, alla capra.

Proprio lo slancio vitale nella sua forma più grezza, nell'assenza di moralità da cui i personaggi sono completamente sganciati, determina in un certo senso l'originalità della raccolta, più che l'originalità dei soggetti stessi narrati.

«Più in là, sul fiume, s'allungava il ponte di ferro tagliando il cielo a piccoli quadri; in fondo, sotto il ponte, il verde degli alberi s'era oscurato. Dalle caserme veniva un rumorìo confuso di grida, di risi e di squilli.»

Nel Libro delle vergini D'Annunzio rielabora la novella iniziale "Le vergini", dove l'Orsola delle "Novelle della Pescara" è la vergine Giuliana. Il soggetto più o meno rimane inalterato, ma nella rielaborazione del 1902 cambia completamente lo stile, in cui ormai si evince la maturità dannunziana nella resa patetica e tragica della storia, con abbondanza di descrizioni anatomiche, mediche e naturali, nel tratteggiare il momento della malattia e della convalescenza.

L'Abruzzo secondo D'Annunzio

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Leopoldo Muzii, sindaco di Castellammare, che avviò Pescara verso la modernità, descritto nella novella "Veglia funebre"

Come lo stesso D'Annunzio scrisse in alcuni articoli dei giornali romani per cui collaborava, l'Abruzzo era sconosciuto, e molte leggende aleggiavano sul conto della regione soprattutto nell'ambiente intellettuale romano. D'Annunzio evidentemente, per alcune novelle con alcune tracce di fantasia e di stregoneria, s'ispirò sia a queste leggende, ma anche alla raccolta di storie di Giovanni Pansa, riguardo ai miti e alle leggende della regione, che avevano a che fare con la superstizione, ma anche con il paganesimo. Non ne furono esenti neppure il poeta Gabriele Rossetti oltre un secolo prima, e nemmeno il pittore Francesco Paolo Michetti insieme a Basilio Cascella, che apprezzarono insieme allo stesso D'Annunzio alcuni riti semi-pagani, come la processione dei Serpari di Cocullo in onore di San Domenico abate. Tuttavia le superstizioni spesso e volentieri, nel programma di D'Annunzio della composizione delle novelle, hanno a che fare con il gusto del macabro e dell'orrido, ripreso anche nel romanzo successivo de Il trionfo della morte (1894), ossia per il rito di esorcismo di un'infante da parte di una strega, o per le connotazioni bestiali e animalesche, di assoluta follia panica collettiva che assumono i pellegrinaggi nei santuari, come nel caso del viaggio verso il santuario dei Miracoli di Casalbordino, descritto sempre da D'Annunzio nel romanzo.

Indubbiamente D'Annunzio, così anche Michetti, si documentarono su tali pratiche, e riportarono in forma d'arte, non senza, probabilmente, eccessivi tratteggi riguardo allo sfogo delle pulsioni e degli istinti, e ciò è visibile anche nei vari carteggi, soprattutto riguardo al pellegrinaggio di Casalbordino, di cui ne parlò anche il compositore Francesco Paolo Tosti nel 1877, quando ci andò con una delle sue amanti romane.
Benché documenti e la stessa popolazione della regione, abbiano dato in parte conferma sulla considerazione che D'Annunzio, e anche il teatino Giuseppe Mezzanotte, avessero riguardo agli istinti primordiali, la critica ha riconosciuto molto bene il compiacimento degli stessi verso il gusto dell'esagerazione[2], ben oltre il verismo di Verga, per non parlare dell'uso del dialetto locale, cosa che lo scrittore siciliano rifiutò per le sue opere. Il dialetto venne usato da D'Annunzio invece per comunicar maggior schiettezza dei personaggi e maggior vivacità della storia.

Francavilla al Mare disegnata da Michetti nel 1877

Lo stesso Mezzanotte elaborò una teoria del tutto personale, per le sue raccolte di novelle, sostenendo che la "bestialità" e l'irruenza della popolazione situata sulla fascia teatino-pescarese proverrebbe dal garbino, che agita gli animi e li spinge a nervosismo e ad estrema vitalità e a manifestare pulsioni, piuttosto che usare la ragione. Non a caso anche D'Annunzio nella raccolta poetica Canto novo (1881), descrivendo i paesaggi campestri tra Pescara e Francavilla al Mare, si avvalse del garbino come giustificazione degli amplessi dei contadini e dell'estrema vitalità dei rapporti suoi con Elda Zucconi.
Fatto sta che D'Annunzio si sbilanciò molto più di Mezzanotte, facendo trasparire una grande generalizzazione dell'ambiente abruzzese agli occhi della critica letteraria nazionale, quando invece lo spazio e il tempo dei racconti si concentrano solo su una determinata fascia ristretta dell'Abruzzo, ossia l'area basso Vestina di Spoltore, Cepagatti e Tocco da Casauria, passando poi a Pescara e Castellammare Adriatico (si ricordi che dal 1807 al 1927 erano due comuni autonomi separati dal fiume, l'uno in provincia di Teramo, l'altro in quella di Chieti), e infine l'area sud del chietino, come Ripa Teatina, Francavilla al Mare, Miglianico, Ortona, Orsogna e Tollo.

Scorcio dell'incrocio tra il Corso Vittorio Emanuele e il Corso Umberto I presso Castellammare Adriatico, ai primi del Novecento. Le case oggi sono state quasi tutte demolite, e al posto del forno-drogheria in rilievo oggi sorge l'ex Banco di Napoli, del Ventennio

Nelle novelle, diverse sono le ambientazioni a sfondo abruzzese, per lo più campagne o piccoli borghi della Val Pescara, tra Chieti e Castellammare. Ovviamente la cittadina principale dove si snodano le storie, descritta con maggior minuzia è proprio Pescara, o meglio la parte storica di Porta Nuova, dove nacque D'Annunzio stesso, e la parte più moderna di Castellammare Adriatico. A giudicare le numerose modifiche urbane che si susseguirono nell'aspetto orografico della città attuale, unita in un solo comune nel 1927, quando prima ne erano due ben distinti, in due province separate dalla foce del fiume, le novelle pescaresi di D'Annunzio sono di grande utilità, e tracciano alcune immagini di una cittadina che alla fine dell'Ottocento, benché in lenta trasformazione, conservava ancora molto della sua storia. Nel rione di D'Annunzio di Porta Nuova si fanno riferimenti alla chiesa di San Cetteo, prima della sua demolizione e ricostruzione in cattedrale nel 1933, alle altre chiese di San Giacomo e del Rosario, di alcuni bastioni della vecchia fortezza spagnola semi-smantellata, come il quartiere dell'Ospedale al bastione di Sant'Agostino, corrispondente all'incrocio odierno di via Orazio-via Conte di Ruvo-viale D'Annunzio, alle casermette che ancora oggi costituiscono la parte rimanente della vecchia fortezza.
Mentre parlando di Castellammare, si fa riferimento al ponte di ferro della ferrovia, allora l'unica via di collegamento delle due città, per cui in La guerra del ponte, da un fatto di cronaca veramente accaduto, il poeta narra della lotta molto accesa tra i due comuni; successivamente in altre novelle, come in Veglia funebre", Castellammare viene presentata come una ridente cittadina costiera molto più attenta alle esigenza della nuova società borghese, provvista di moderni stradoni, ossia viale Carducci, Corso Umberto I, Corso Vittorio Emanuele II, Piazza Umberto I, e della nuova stazione ferroviaria, con un'economia fiorente e sempre più vitale, a differenza della vecchia Pescara, ancora legata fortemente alla vita di città-caserma, dove si viveva ancora di commercio agricolo-pescatorio, quartiere insomma di garzoni, di artigiani semplici, il rione più popolare vale a dire.

Non mancano chiari riferimenti, come si è detto, alla letteratura internazionale, con materiale di spoglio soprattutto dalle raccolte verghiane, ad esempio nella storia de Gli idolatri D'Annunzio fa combattere due schiere di fanatici religiosi provenienti da i borghi immaginari di Mascalico e Radusa, ripresi dalle borgate catanesi di Mascalì e Raddusa, che si fanno la guerra per la supremazia del santo patrono, opponendo San Pantaleone a San Gonselvo; in La vergine Orsola il veicolo della morbosità che abbruttisce interiormente il personaggio è la ricerca di cibo, mentre è in punto di morte, a dare una prima lettura analitica del suo istinto di voracità, malgrado sia lodata come vergine, tanto che la storia terminerà con una fuga d'amore, un aborto, e infine la morte; in La veglia funebre la vedova e il fratello del morto sentono accendersi nel sangue un desiderio insaziabile di voluttà, proprio mentre la descrizione si sposta sul cadavere che lentamente si disfà, e la storia finisce in un amplesso sfacciato proprio nella sala del morto, in La morte del duca d'Ofena, la tensione aumenta lentamente, dal momento che i villani assaltano il palazzo signorile, dandolo alle fiamme e massacrando la servitù, fino al momento in cui arrivano a giustiziare il duca stesso con il valletto.

Secondo Giargiulo e Marcazzan, Gabriele d'Annunzio novelliere si sarebbe formato nella prosa e nelle tematiche proprio con i bozzetti di stampo abruzzese, delle novelle-paesaggio, dove lo spazio e il tempo sono fondamentali, seguendo appunto anche la lezione di Mezzanotte, per stabilire e per far comprendere l'istinto per cui le normali pulsioni vitali dell'amore, delle passioni varie fisiologiche, vengono accentuate così tanto da sconfinare nella violenza, nella follia, e nell'omicidio; ma anche se D'Annunzio effettivamente si formò con questi topi, che riproporrà anche in alcuni brani dei suoi maggiori romanzi, dopo le prose abruzzesi, e la rielaborazione dell'antologia del 1902, non produrrà più nient'altro, se non si considerano le brevi prose autobiografiche de Le faville del maglio (1924-28).

Note

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  1. ^ Introduzione di Luigi Russi all'edizione Mondadori del 1969, pag. 12
  2. ^ Gianni Oliva, Centri e periferie. Particolari di geo-storia letteraria, cap. "L'Ottocento", Marsilio Editore 2006

Edizioni

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