«Se non avessi Giobbe! Io non lo leggo con gli occhi come si legge un altro libro, me lo metto per così dire sul cuore... Come il bambino che mette il libro sotto il cuscino per essere certo di non aver dimenticato la sua lezione quando al mattino si sveglia, così la notte mi porto a letto il libro di Giobbe. Ogni sua parola è cibo, vestimento e balsamo per la mia povera anima»
Il Libro di Giobbe (ebraico איוב; greco Ιώβ; latino Iob) è un testo contenuto nella Bibbia ebraica (Tanakh) e cristiana.
Secondo il profeta del VI secolo Ezechiele, Giobbe fu un uomo dell'antichità rinomato per essere un giusto,[1][2] e perciò l'autore del libro potrebbe averlo scelto come personaggio di un racconto sapienziale, una parabola.[3] L'ipotesi che Giobbe sia solo il personaggio di un racconto è suggerita anche dal nome stesso, che significa "il perseguitato"[4] e fu discussa già nell'antichità sia dagli ebrei nel Talmud Babilonese[5] sia dai cristiani.[6]
L'anonimo autore fu quasi sicuramente un israelita, sebbene abbia ambientato la storia fuori da Israele, nell'Edom meridionale o nell'Arabia settentrionale, facendo un'allusione a luoghi distanti tra loro, come la Mesopotamia e l'Egitto. Alcuni dettagli narrativi suggeriscono che l'autore avesse presente la vicenda del re babilonese Nabonide, che risiedette nell'oasi di Tema fra il 550 e il 540 a.C. a causa di una grave malattia della pelle.[7]
I commentatori hanno proposto per la composizione del libro periodi che vanno dall'epoca pre-mosaica al II secolo a.C.[8]. Fu attribuito a Mosè dalla tradizione ebraica[9], ma l'ipotesi maggiormente condivisa dagli studiosi è che il libro sia stato redatto dopo l'esilio babilonese, cioè molti secoli dopo l'epoca in cui Mosé sarebbe vissuto secondo la cronologia biblica.
Il libro è composto da 42 capitoli descriventi la storia del saggio Giobbe, la cui vita è provata da tribolazioni inspiegabili, con ampie meditazioni contenute nei dialoghi con i suoi tre amici sul perché Dio permetta il male all'uomo giusto (vedi Teodicea).
Il testo è principalmente scritto in uno stile poetico, ma l'introduzione (capp. 1-2) e la conclusione (capitolo 42, 7-17) sono in prosa. Al centro del libro il capitolo 28 si differenzia per il suo contenuto tipico della letteratura sapienziale. Sembra esserci, inoltre, una certa discontinuità teologica fra il testo poetico, che sostiene che Dio è troppo distante dall'uomo perché questi possa capirlo e giudicare il suo operato, lasciando aperta la speranza di un "redentore" che riscatterà il male, e l'epilogo, secondo cui Dio retribuisce in terra il male subito dal giusto.
Il testo dimostra una certa permeazione all'interno del pensiero ebraico di temi già esplorati dal mondo cassita, ben presenti nel più antico "Poema babilonese del giusto sofferente".
Gli studiosi hanno lungamente discusso sulla storia compositiva del libro, proponendo anche datazioni diverse per le sue parti, ma senza raggiungere conclusioni condivise. La cornice in prosa è stata ritenuta da molti un'aggiunta posteriore, ipotesi esclusa da altri. Kugler e Hartin discutono queste ipotesi, ma propendono per il VI secolo come datazione più probabile per diverse ragioni[10], mentre Fokkelman lo assegna al V, secolo più, secolo meno.[11] Anche Seow lo attribuisce alla fase iniziale del dominio persiano.[12] Secondo altri, tuttavia, i capitoli 3-37 (cioè la maggior parte del testo) potrebbero risalire soltanto al IV-II secolo a.C..[13] [14]
Il libro esiste sia in ebraico, il testo masoretico, sia nella traduzione in greco, la Septuaginta, redatta in Egitto negli ultimi secoli prima dell'era volgare. Inoltre tra i Rotoli del Mar Morto sono stati rinvenuti manoscritti in aramaico ed ebraico.[15]
Il libro di Giobbe intende rispondere alla domanda di come Dio premi o castighi le azioni degli uomini. Il popolo ebraico ha fatto in proposito un lungo cammino, che ha portato a grandi scoperte e riflessioni. Si possono riassumere le tappe principali di questo cammino nello schema seguente:
« Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria che deve rivelarsi in noi » ( Romani 8,18, su laparola.net.) |
« Io completo nella mia carne quello che manca alle prove di Cristo per il suo corpo che è la Chiesa » ( Colossesi 1,24, su laparola.net.) |
«Ecco, il timore del Signore, cioè che io in persona ti do, questo è sapienza, perché con il timore del Signore l’uomo inerisce a Dio: in lui sta la vera sapienza dell'uomo, quale causa suprema di ogni cosa. E schivare il male, cioè il peccato con il quale l’uomo perde Dio, questo è intelligenza, perché cioè l'intelligenza è necessaria all'uomo soprattutto perché egli sappia con essa discernere i mali dai beni, affinché evitando i mali possa compiere il bene e giungere alla partecipazione della sapienza divina.»