Morte di Benito Mussolini parte della Seconda guerra mondiale | |||
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I cadaveri di Benito Mussolini, Claretta Petacci, Nicola Bombacci, Alessandro Pavolini e Achille Starace a piazzale Loreto a Milano il 29 aprile 1945. | |||
Data | 27-28 aprile 1945 | ||
Luogo | Dongo, Giulino di Mezzegra (CO) | ||
Causa | Caduta della Repubblica Sociale Italiana | ||
Esito | Morte di Benito Mussolini, di Clara Petacci e dei più importanti gerarchi della Repubblica Sociale Italiana. | ||
Modifiche territoriali | Insurrezioni partigiane, ritiro dei nazisti dall'Italia, occupazione alleata di tutto il Nord Italia e jugoslava della Venezia Giulia | ||
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La morte di Benito Mussolini avvenne il 28 aprile 1945 a Giulino, frazione del comune di Mezzegra (oggi Tremezzina), in provincia di Como, dove fu ucciso con colpi di arma da fuoco insieme all'amante Clara Petacci; gli altri gerarchi fascisti con i quali era stato catturato furono invece fucilati a Dongo, luogo della sua cattura.
Catturato il giorno precedente dai partigiani della 52ª Brigata Garibaldi "Luigi Clerici" comandata da Pier Luigi Bellini delle Stelle, il capo del fascismo e della Repubblica Sociale Italiana si trovava in stato di arresto.
In una serie di cinque articoli su l'Unità del marzo 1947, il comandante partigiano Walter Audisio, detto Colonnello Valerio, ha raccontato di essere stato l'unico autore dell'uccisione, nell'ambito di una missione cui avevano partecipato anche i partigiani Aldo Lampredi "Guido Conti" e Michele Moretti "Pietro Gatti" per dare esecuzione all'Ultimatum del 19 aprile 1945 e all'articolo 5 del Decreto per l'amministrazione della giustizia, approvato a Milano il 25 aprile dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI)[1][2][3][4][5].
La responsabilità dell'esecuzione fu poi rivendicata dallo stesso Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia con il comunicato del 29 aprile 1945.
Il 18 aprile 1945, nel tentativo di sfuggire alla disfatta definitiva della Repubblica Sociale Italiana e sperando ancora in un sussulto dei suoi con la possibilità di trattare un accordo di resa a condizione, Mussolini abbandonò l'isolata sede di Palazzo Feltrinelli a Gargnano, sulla sponda occidentale del lago di Garda, e si trasferì a Milano, giungendovi in serata e prendendo alloggio presso la prefettura; il giorno precedente aveva discusso nell'ultimo consiglio dei ministri sulla possibile resistenza nel Ridotto della Valtellina[6].
Il 20 aprile, nei locali della prefettura dove era ormai rinchiuso, concesse un incontro al giornalista Gian Gaetano Cabella, direttore del giornale Popolo di Alessandria, e, alla richiesta del giornalista di potergli rivolgere qualche domanda, lo sorprese, rispondendo: "Intervista o testamento?". Fu l'ultima intervista rilasciata da Mussolini, che la rilesse, corresse e siglò il 22 aprile[nota 1].
Sempre il 22 aprile, nel cortile della prefettura, pronunciò l'ultimo discorso a un centinaio di ufficiali della Guardia Repubblicana, concludendo: "Se la Patria è perduta, è inutile vivere". La sera incontrò Carlo Silvestri e gli consegnò una dichiarazione per il comitato esecutivo del PSIUP[7] in cui chiedeva che la RSI finisse in mani repubblicane e non monarchiche, socialiste e non borghesi.
Il 23 aprile le truppe alleate entrarono a Parma, e da Milano non furono più possibili comunicazioni telefoniche con Cremona e Mantova; il giorno seguente fu liberata Genova e il console tedesco Wolf si fece vivo per richiedere al ministro delle finanze Domenico Pellegrini il versamento anticipato di dieci milioni di lire, quota mensile per le spese di guerra del mese seguente. Il 25 aprile mattina gli operai iniziarono a occupare le fabbriche di Sesto San Giovanni alla periferia di Milano[6].
Nel pomeriggio del 25 aprile, con la mediazione del cardinale-arcivescovo di Milano Alfredo Ildefonso Schuster, si svolse nell'arcivescovado un incontro decisivo tra la delegazione fascista composta da Mussolini stesso, il sottosegretario Barracu, i ministri Zerbino e Graziani (l'industriale Gian Riccardo Cella, l'ex prefetto di Milano ed ex ministro delle corporazioni Mario Tiengo e il prefetto di Milano Mario Bassi non parteciparono direttamente ai colloqui) e una delegazione del CLN composta dal generale Cadorna, dall'avvocato democristiano Marazza, dal rappresentante del Partito d'Azione Riccardo Lombardi e dal liberale Giustino Arpesani. Sandro Pertini arrivò in ritardo a riunione conclusa. A Milano era intanto in corso lo sciopero generale e l'ordine dell'insurrezione generale era imminente. Durante l'incontro, Mussolini apprese che i tedeschi avevano già avviato trattative separate con il CLN: l'unica proposta che ricevette dai suoi interlocutori fu quindi la "resa incondizionata". Un accordo al momento sembrava possibile: furono offerte garanzie per i fascisti e per i loro familiari[8], ma i repubblichini, anche se senza vie d'uscita, non vollero essere i primi a firmare la resa per essere poi tacciati di tradimento[9]. Si riservarono di dare risposta entro un'ora, lasciando l'arcivescovado e ritirandosi in prefettura, ma non fecero ritorno.
Nel mentre Marcello Petacci, fratello dell'amante di Mussolini, si recò dal console spagnolo di Milano Don Fernando Canthal per avere il suo permesso a un'importante missione per conto di Mussolini stesso: il console accettò ed entrambi si recarono in Prefettura dove si trovava Mussolini. Questi gli affidò una lettera per l’ambasciatore inglese Norton che si trovava a Berna: nella lettera c'era scritto che si offriva la resa della Repubblica Sociale Italiana agli inglesi; in cambio gli inglesi non avrebbero dovuto far cadere il fascismo, ma usarlo come alleato contro i comunisti[10].
In serata, verso le ore 20, mentre i capi della Resistenza, dopo aver atteso invano una risposta, davano l'ordine dell'insurrezione generale, Mussolini, salutati gli ultimi fedeli[nota 2], lasciò Milano e partì in direzione di Como. Assieme ai fascisti si trovava il tenente Birzer con i suoi uomini, incaricato da Hitler di scortare Mussolini ovunque andasse.[nota 3]
Como rappresentava per Mussolini una meta che offriva diverse possibilità: anzitutto, la città lariana e la sponda occidentale del suo lago erano considerate una zona marginale relativamente protetta e con una limitata presenza partigiana. Qui era possibile trovare un rifugio sicuro e appartato e nascondersi sino a quando gli Alleati, al loro arrivo, avrebbero scoperto il nascondiglio: sarebbe quindi stato possibile consegnarsi loro con garanzie; questo era l'obiettivo principale secondo la testimonianza di Renato Celio, prefetto di Como[11]. In alternativa, Como costituiva anche un punto di passaggio per raggiungere la Valtellina dove già da alcune settimane Alessandro Pavolini prospettava di costituire un estremo baluardo di resistenza, il Ridotto Alpino Repubblicano, e dove erano affluiti tremila uomini del generale Onori ed erano attesi ancora mille uomini del maggiore Vanna. L'idea però era osteggiata, oltre che dai vertici militari tedeschi, anche dal generale Niccolò Nicchiarelli, comandante della GNR, e dal ministro Rodolfo Graziani[12]. Ancora, sembrava possibile costituire un estremo baluardo di difesa proprio nella città lariana, facendo convergere su di essa tutte le forze residue e resistere a oltranza per trattare poi in extremis con gli Alleati al loro arrivo[13].
In effetti a Como si concentrarono numerose formazioni provenienti dalle zone circostanti, condotte da Alessandro Pavolini. L'afflusso durò tutta la notte e parte della mattinata. Alcune fonti parlano di quarantamila fascisti[14], mentre Giorgio Bocca riduce il numero dei militi a soli 6.000-7.000 uomini che, peraltro in giornata, si dispersero dopo che il Duce decise di congedarli, sciogliendo dalla fedeltà al giuramento i suoi fedeli e partendo di nascosto con i ministri alle 3 del mattino[15].
Infine, la vicinanza con la Svizzera poteva offrire un'estrema possibile via di fuga, anche se Mussolini aveva in precedenza rifiutato sempre questa possibilità: peraltro le autorità svizzere, fin dall'estate 1944, avevano rifiutato la richiesta d'ingresso nel loro paese ai gerarchi fascisti e ai loro familiari[13]. Il rifiuto era stato confermato in quegli stessi giorni dal rappresentante elvetico a Milano, Max Troendle[16]. In Svizzera era possibile poi concretizzare trattative con diplomatici americani, attraverso l'intermediazione del console spagnolo a Berna, oppure come meta momentanea per poi raggiungere la Spagna[17]. Le testimonianze degli accompagnatori italiani superstiti di quei giorni riferiscono concordemente del rifiuto di Mussolini a espatriare, ma è il tenente Birzer a parlare del tentativo di fuga di Mussolini e compagnia.[nota 4].
Durante il viaggio, il furgone di coda del convoglio, che trasportava valori e documenti di particolare importanza politica e militare, andò in panne nei pressi di Garbagnate[18]. L'equipaggio, tra cui Maria Righini, cameriera personale di Mussolini, raggiunse Como con mezzi di fortuna. Vani risultarono i tentativi di recupero effettuati nella notte: il furgone, un "Balilla Van", verrà poi ritrovato la mattina seguente dai partigiani[19].
Alle 21:30 il capo del fascismo raggiunse la prefettura di Como. Il giorno precedente nella città comasca era arrivata anche la moglie Rachele con i figli Romano e Anna Maria, ma Mussolini si rifiutò di incontrarli[20], limitandosi a scriver loro una lettera d'addio e a fare una telefonata con cui raccomandava alla moglie di portare i figli in Svizzera[nota 5]. Durante la notte insonne, febbrili incontri con le autorità locali demolirono la possibilità di una sosta prolungata nella città, giudicata indifendibile. Rodolfo Graziani consigliò di ritornare a Milano, mentre la maggior parte — in particolar modo Guido Buffarini Guidi e Angelo Tarchi — spinsero per entrare in Svizzera, anche in maniera illegale. Su indicazione del federale di Como Paolo Porta si scelse di proseguire verso Menaggio.
Verso le quattro del mattino del 26 aprile, cercando invano di eludere la sorveglianza tedesca, il convoglio fascista abbandonò precipitosamente Como muovendosi verso nord, costeggiando il lato occidentale del lago di Como lungo la strada Regina e giungendo a Menaggio verso le cinque e trenta senza problemi.
L'edizione del 26 aprile del Corriere della Sera uscì dedicando la sua prima pagina all'insurrezione generale di Milano contro le forze nazifasciste e riportando, sempre nella stessa pagina, la notizia dell'abbandono di Milano col titolo: "Mussolini scompare da Milano dopo drammatiche tergiversazioni"[nota 6].
A Menaggio proseguirono le discussioni e le riunioni sul da farsi, mentre nel centro lariano continuavano ad arrivare importanti personalità fasciste e la notizia presto si diffondeva. Rodolfo Graziani spinse per tornare indietro; inascoltato, si congedò e fece ritorno verso Como. Anche Alessandro Pavolini ritornò sui suoi passi per raccogliere e far convergere su Menaggio i militari arrivati a Como, ma lungo il tragitto fu attaccato da una formazione partigiana rimanendo lievemente ferito. Molti intendevano sconfinare in Svizzera, prendendo la via di Porlezza e di là a Lugano[nota 7]. Si scelse di allontanarsi da Menaggio e di temporeggiare. Alla partenza, improvvisa per cercare di liberarsi dell'oppressiva presenza della gendarmeria tedesca, il convoglio deviò a ovest in Val Menaggio per giungere a Cardano, frazione del piccolo comune di Grandola ed Uniti, presso la caserma della 53ª compagnia della Milizia Confinaria con sede all'ex albergo Miravalle.
A Cardano, Mussolini fu raggiunto dall'amante Claretta Petacci, accompagnata dal fratello, e dalla scorta tedesca che aveva ricevuto l'ordine da Hitler di scortarlo verso la Germania. Qui apprese che a Chiavenna un aereo da trasporto era pronto al decollo per portarlo in salvo in Baviera[21]. A Grandola fu raggiunto anche da Vezzalini, capo della provincia di Novara, e dal maggiore Otto Kinsnatt della Waffen-SS, diretto superiore del tenente Fritz Birzer, proveniente dal lago di Garda[22]. In serata giunse la notizia che i ministri Guido Buffarini Guidi e Angelo Tarchi e il vicecommissario della prefettura di Como Domenico Saletta, che tentavano l'espatrio forzando la dogana, erano stati arrestati proprio a Porlezza dai partigiani. Nel frattempo la radio annunciava che anche Milano era stata completamente liberata e che i responsabili della disfatta nazionale trovati con le armi in mano sarebbero stati puniti con la pena di morte[23]. Tutto volgeva al peggio e la disperazione aveva contagiato i presenti.
Nell'impossibilità di proseguire in quella direzione e constatata l'indifendibilità della piccola guarnigione da un eventuale attacco partigiano, si fece ritorno a Menaggio. Nella notte arrivò Pavolini, senza i numerosi contingenti sperati ma con soli sette o otto militi della GNR.
Nella notte, assieme a Pavolini, giunse a Menaggio un convoglio militare tedesco in ritirata composto da trentotto autocarri e da circa duecento soldati della FlaK, la contraerea tedesca, al comando del tenente Willy Flamminger[24] diretto a Merano attraverso il passo dello Stelvio. Mussolini, con i gerarchi fascisti e le rispettive famiglie al seguito, decise di aggregarvisi. La colonna, lunga circa un chilometro, alle cinque del mattino partì da Menaggio, ma alle sette, appena fuori dall'abitato di Musso, fu fermata a un posto di blocco delle Brigate Garibaldi; dopo una breve sparatoria, e in seguito a lunghe trattative, i tedeschi ottennero il permesso di proseguire a condizione che si effettuasse un'ispezione, e che fossero consegnati tutti gli italiani presenti nel convoglio, nel sospetto che vi fosse il Duce con qualche gerarca in fuga. Mussolini, su consiglio del capo della sua scorta SS, il sottotenente Fritz Birzer, indossò un cappotto e un elmetto da sottufficiale della Wehrmacht, si finse ubriaco e salì sul camion numero 34 della Flak, occultandosi in fondo al pianale, vicino alla cabina di guida, ricoperto da una coperta militare. A nessun altro italiano fu concesso di tentare di seguire nascostamente Mussolini nel convoglio.
Intanto, durante l'attesa in cui si svolgevano le trattative, Ruggero Romano con il figlio Costantino, Ferdinando Mezzasoma, Paolo Zerbino, Augusto Liverani, Nicola Bombacci, Luigi Gatti, Ernesto Daquanno, Goffredo Coppola e Mario Nudi si affidarono al parroco don Enea Mainetti, nella canonica di Musso, che li consegnò ai partigiani. Il sacerdote venne a conoscenza della presenza di Mussolini nella colonna e ne diede comunicazione a "Pedro".[25]
Verso le ore 16 del 27 aprile, durante l'ispezione della colonna tedesca in piazza a Dongo, Mussolini fu riconosciuto dal partigiano Giuseppe Negri[nota 8] sotto una panca del camion n. 34. Fu perciò prontamente disarmato del mitra e di una pistola Glisenti, arrestato e preso in consegna dal vicecommissario di brigata Urbano Lazzaro "Bill" che lo accompagnò nella sede comunale, ove gli fu sequestrata la borsa di cui era in possesso[nota 9].
I 16 gerarchi giustiziati a Dongo dopo le 17 del 28 aprile furono:
Tutti gli altri componenti italiani al seguito furono arrestati: si trattava di più di cinquanta[26] persone, più le mogli e i figli al seguito. Tra di essi la maggior parte dei membri del governo repubblichino, più alcune personalità politiche, militari e sociali accompagnati dai loro familiari. Qualcuno si consegnò spontaneamente, altri tentarono di comprarsi una possibilità di fuga, offrendo ingenti somme e valori alla popolazione locale. Gli occupanti di un autoblindo cercarono di resistere ingaggiando una sparatoria, Pietro Corradori e Alessandro Pavolini fuggirono buttandosi nel lago, ma furono ripresi e Pavolini rimase ferito.
Il giorno seguente sedici di essi, tra gli esponenti più in vista del regime, furono sommariamente fucilati sul lungolago di Dongo; tra i restanti, rimasti agli arresti a Dongo e poi trasferiti a Como, nelle due notti successive fu prelevata e uccisa un'ulteriore decina di prigionieri.[27].
Il fermo della colonna motorizzata tedesca e il successivo arresto di Mussolini e del suo seguito era stato effettuato dai partigiani del distaccamento "Puecher" della 52ª Brigata Garibaldi "Luigi Clerici", comandata da Pier Luigi Bellini delle Stelle, nome di battaglia "Pedro". Il suo commissario politico era Michele Moretti "Pietro Gatti", vice-commissario politico Urbano Lazzaro "Bill", il capo di stato maggiore Luigi Canali "Capitano Neri". Tra i gerarchi al seguito del dittatore, furono arrestati anche Francesco Maria Barracu, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alessandro Pavolini, Ministro segretario del PFR, Ferdinando Mezzasoma, Ministro della cultura popolare, Augusto Liverani, Ministro delle comunicazioni, Ruggero Romano, Ministro dei lavori pubblici, Paolo Zerbino, Ministro dell'interno. Fu arrestato anche Marcello Petacci, fratello di Claretta, che a bordo di un'Alfa Romeo 6C 1500 recante bandiera spagnola, seguiva il convoglio con la convivente Zita Ritossa, i figli Benvenuto e Ferdinando e la sorella. Esibendo un falso passaporto diplomatico spagnolo si dichiarava estraneo al convoglio, spacciandosi per diplomatico spagnolo. Anche Clara era in possesso di un passaporto spagnolo intestato a Donna Carmen Sans Balsells[28]. Tra i fermati c'era anche la presunta figlia naturale del Duce, Elena Curti[29][30].
Nello stesso tempo, i prigionieri rimasti a Dongo furono interrogati e schedati dal "capitano Neri" e separati in tre gruppi distinti: Bombacci, Barracu, Utimpergher, Pavolini e Casalinuovo furono anch'essi trasferiti a Germasino; i ministri rimasero rinchiusi nei locali del municipio; gli altri, autisti, impiegati, militari - tra cui l'agente dei servizi segreti Rosario Boccadifuoco - furono distribuiti nell'ex caserma dei Carabinieri e in case private. I Petacci, di cui non si era ancora scoperto la vera identità, furono alloggiati all'albergo Dongo. La partigiana "Gianna", in collaborazione con l'impiegata comunale Bianca Bosisio, eseguì l'inventario di tutti gli ingenti valori e i beni sequestrati.
Nel tardo pomeriggio del 27 aprile il brigadiere Antonio Scappin "Carlo"[31] era riuscito a comunicare su ordine di "Pedro", telefonando attraverso una linea telefonica privata, la notizia dell'arresto a Milano. Una seconda comunicazione giunse alle 20:20, tramite fonogramma, con la quale si comunicava che Benito Mussolini si trovava sotto controllo a Germasino custodito da partigiani e Guardia di Finanza.
Già nella mattina del 25 aprile il CLNAI, riunitosi a Milano, aveva approvato un Decreto per l'amministrazione della giustizia ove, all'art. 5 si prevedeva che: “i membri del governo fascista e i gerarchi fascisti colpevoli di aver contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, d'aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso e tradito le sorti del paese e di averlo condotto all'attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e, nei casi meno gravi con l'ergastolo”. Dello stesso tenore, il 19 aprile era stato emesso un Ultimatum "Sia ben chiaro per tutti che chi non si arrende sarà sterminato"[nota 10].
Con il diffondersi della notizia, giungevano al comando del CLNAI dal quartiere generale OSS di Siena diversi telegrammi con la richiesta di affidamento al controllo delle forze delle Nazioni Unite di Mussolini.[32] Infatti, la clausola numero 29 dell'armistizio lungo siglato a Malta da Eisenhower e dal maresciallo d'Italia Pietro Badoglio il 29 settembre 1943, prevedeva espressamente che: «Benito Mussolini, i suoi principali associati fascisti e tutte le persone sospette di aver commesso delitti di guerra o reati analoghi, i cui nomi si trovino sugli elenchi che verranno comunicati dalle Nazioni Unite e che ora o in avvenire si trovino in territorio controllato dal Comando militare alleato o dal Governo italiano, saranno immediatamente arrestati e consegnati alle Forze delle Nazioni Unite».[33] All'aeroporto di Bresso intanto si inviò un velivolo per prelevare il dittatore[34].
Tuttavia, non appena a conoscenza dell'arresto dell'ex capo del governo, il Comitato insurrezionale di Milano formato da Pertini, Valiani, Sereni e Longo, riunitosi alle ore 23:00 del giorno 27, decise di agire senza indugio e di inviare una missione a Como onde procedere all'esecuzione di Mussolini[35]; questo per aggirare il comportamento equivoco del generale Cadorna, diviso tra i doveri di comandante del CLN e la lealtà agli Alleati[36].
Walter Audisio, nome di battaglia "Colonnello Valerio", ufficiale addetto al comando generale del CVL e Aldo Lampredi "Guido" ispettore del comando generale delle Brigate Garibaldi e uomo di fiducia di Luigi Longo, furono incaricati di eseguire la sentenza. Il riluttante generale Raffaele Cadorna, per evitare che Mussolini cadesse nelle mani degli Alleati[37], rilasciò il salvacondotto necessario[38]; Audisio, inoltre, fu munito di un secondo lasciapassare in lingua inglese, firmato dall'agente dell'OSS americano Emilio Daddario[39]. Contemporaneamente, peraltro, Cadorna provvedeva a contattare il tenente colonnello Sardagna[nota 11] rappresentante del CVL a Como, al fine di predisporre misure per recuperare Mussolini e trasferirlo in luogo sicuro[40].
Intanto alle 3 del mattino successivo, il servizio radio partigiano trasmise agli alleati un fonogramma a scopo di depistaggio, nel quale si asseriva l'impossibilità della consegna di Mussolini, in quanto già processato dal Tribunale popolare e fucilato "nello stesso luogo ove precedentemente fucilati da nazifascisti quindici patrioti"[41]. Ci si riferiva alla Strage di Piazzale Loreto del 10 agosto 1944.
In attesa di decisioni in merito, e temendo per la sua incolumità, il comandante Bellini delle Stelle, intorno alle 18:30 del 27 aprile, trasferì l'ex duce, insieme con Porta, nella caserma della Guardia di Finanza di Germasino, un paesino sopra Dongo. Prima di ritornare a Dongo "Pedro" riceve la richiesta da Mussolini di portare i saluti alla signora che accompagna il console spagnolo, senza ricevere indicazioni sulla sua vera identità. Dopo l'interrogatorio della signora, Bellini delle Stelle scoprì che si trattava di Clara Petacci, la quale chiese di essere ricongiunta all'amante: il comandante acconsentì.
Se al momento dell'arresto Mussolini sembrava oramai privo di energie, col passare delle ore iniziò a manifestare una certa serenità. Già a Dongo rispondeva volentieri alle domande che gli venivano rivolte, a Germasino si intrattenne con i suoi custodi discutendo su temi di politica, sulla guerra e sulla resistenza[42]. Prima di coricarsi alle 23:30, su richiesta dei partigiani di guardia, Mussolini sottoscrisse questa dichiarazione: «La 52ª Brigata garibaldina mi ha catturato oggi, venerdì 27 aprile, sulla piazza di Dongo. Il trattamento usatomi durante e dopo la cattura è stato corretto. Mussolini».[43] All'1:00 fu svegliato per essere trasferito di nuovo in un posto ritenuto più sicuro e, affinché non fosse riconosciuto, gli fu fasciato il capo. Di nuovo a Dongo, Mussolini fu riunito alla Petacci su richiesta di quest'ultima; poi, i due prigionieri furono fatti salire su due vetture, con a bordo, oltre ai due autisti, anche "Pedro", il "Capitano Neri", "Gatti", la staffetta Giuseppina Tuissi "Gianna" e i giovani partigiani Guglielmo Cantoni "Sandrino Menefrego" e Giuseppe Frangi "Lino"[44] e condotti verso il basso lago.
La notizia del trasferimento a Germasino si era oramai diffusa rapidamente: i partigiani temevano un colpo di mano fascista per tentare di liberare Mussolini, o qualche tentativo da parte degli Alleati per impossessarsene. Si decise allora un ulteriore trasferimento in un luogo più distante. "Neri", d'accordo con "Pietro", era del parere di trasferire Mussolini in una baita a San Maurizio di Brunate, sopra Como. L'intenzione di "Pedro" era invece di porre in salvo Mussolini, essendo stato contattato dal tenente colonnello Sardagna, rappresentante del CVL a Como, su ordine del comandante generale Raffaele Cadorna, che aveva predisposto il traghettamento del prigioniero dal molo di Moltrasio sino alla villa dell'industriale Remo Cademartori a Blevio, sull'altra sponda del ramo comasco del Lario. Secondo questo piano, Mussolini e la Petacci avrebbero dovuto essere nascosti all'interno di una grotta naturale sita nel parco di Villa Cademartori.[45] Lungo la strada, tuttavia, dopo aver superato con difficoltà diciotto posti di blocco partigiani, ci si rese conto che era troppo rischioso procedere oltre e non era possibile raggiungere la meta prefissata[46]. "Pedro" convinse quindi il gruppo a fermarsi a Moltrasio ma, giunti sul molo, non fu rinvenuta nessun'imbarcazione pronta ad accoglierli.[40]. Intanto in lontananza furono uditi echi di una nutrita sparatoria, provenienti da una prima avanguardia della 34ª Divisione statunitense che entrava in città. Si decise quindi, su proposta di Canali, di ritornare sui propri passi e di trovare un sicuro rifugio alternativo. Intanto una decina di Jeep di un reparto agli ordini del Generale Bolty perlustravano la zona per cercare di assicurarsi la consegna di Mussolini[47].
Intorno alle ore 3:00 del 28 aprile, Mussolini e la Petacci furono quindi fatti scendere dalle vetture e alloggiati a Bonzanigo, una frazione del comune di Tremezzina, presso la famiglia De Maria, conoscenti di lunga data del "capitano Neri" e di cui il capo partigiano si fidava ciecamente[nota 12]. Il piantonamento notturno fu effettuato dai partigiani Cantoni e Frangi; "Pedro" con l'autista Dante Mastalli ritornò a Dongo, mentre "Neri", "Gianna" e "Pietro" con l'autista ”Andrea" (Giovanni Battista Geninazza) si diressero verso Como.
L'Unità del 29 aprile 1945 riportò la notizia della morte di Mussolini senza ulteriori commenti Mussolini e i suoi accoliti giustiziati dai patrioti in nome del popolo. Il primo resoconto ufficiale, seppur sintetico, comparve sul quotidiano l'Unità nella sua edizione milanese il 30 aprile 1945, ripreso il 1º maggio nell'edizione nazionale. Portava il titolo "L'esecuzione di Mussolini" e non era firmato. In esso non si facevano nomi, ma si parla genericamente di esecutori.
Dal 18 novembre al 24 dicembre 1945, sempre sullo stesso quotidiano nell'edizione romana, in ventiquattro puntate, fu presentata una relazione più dettagliata. Gli articoli non erano firmati, ma erano introdotti da una breve presentazione di Luigi Longo. Qui l'esecutore veniva chiamato con il solo nome di battaglia di colonnello Valerio. Questa versione è stata parzialmente ripubblicata il 25 aprile 1995.
L'identificazione del "Colonnello Valerio" con Walter Audisio fu effettuata solo nel 1947, in un servizio di otto puntate dal sei al sedici marzo firmato da Alberto Rossi, il quotidiano romano Il Tempo e dal periodico neofascista Meridiano d'Italia.
Per questo motivo il 22 marzo, la segreteria del P.C.I. confermò con un comunicato che Valerio e Audisio erano la stessa persona.
Il giorno dopo comparve su l'Unità una biografia di Walter Audisio dal titolo "Colui che fece giustizia per tutti. L'uomo Valerio".
Un circostanziato memoriale, in cui Audisio raccontava in prima persona, fu pubblicato in sei puntate da l'Unità fra il venticinque e il ventinove marzo.
Nel maggio 1972, su richiesta di Armando Cossutta, Aldo Lampredi Guido consegnò alla dirigenza del P.C.I. una relazione riservata non destinata alla pubblicazione, che è stata però pubblicata da l'Unità il 26 gennaio 1996.
Nel 1975 Walter Audisio raccontò nel libro postumo In nome del popolo italiano, curato dalla moglie Ernestina Ceriana, le vicende di cui era stato protagonista.
Michele Moretti "Pietro Gatti" rilasciò la sua versione in diverse interviste e dichiarazioni. La testimonianza più rilevante è contenuta nel libro di Giusto Perretta, presidente dell'Istituto comasco per la storia del movimento di Liberazione, Dongo, 28 aprile 1945. La verità pubblicato nel 1997.
Della morte di Benito Mussolini esistono numerosi racconti e versioni, più o meno fantasiosi, che sono stati elaborati negli anni dopo gli avvenimenti. Spesso sono il frutto di campagne propagandistiche e di speculazione politica che non trovano sul terreno storiografico alcun serio riscontro[48].
La Versione storica o ufficiale è la risultante delle testimonianze date sugli avvenimenti che riguardano l'uccisione di Mussolini e della Petacci rilasciate dai tre esecutori. Le versioni che hanno dato sono differenti tra loro, ma sostanzialmente concordano sulla modalità con cui fu eseguita, mentre divergono sugli atteggiamenti e le parole pronunciate[49].
Alle ore 07:00 del 28 aprile, "Valerio" e "Guido" partono dalla scuola di Viale Romagna di Milano, con il supporto di un plotone di quattordici partigiani,[nota 13] agli ordini del comandante Alfredo Mordini "Riccardo", ispettore politico della 3ª Divisione Garibaldi-Lombardia "Aliotta", e di Orfeo Landini "Piero". Giunto a Como, Audisio quindi, esibisce il lasciapassare di Cadorna al nuovo prefetto Virginio Bertinelli e al colonnello Sardagna, assicurando loro che avrebbe trasferito i prigionieri a Como e, in un secondo momento, a Milano[50]. Trattenutosi a Como fino alle 12:15 in cerca di un camion per il trasporto, Audisio si sposta quindi a Dongo, dove giungerà alle 14:10. Lampredi e Mordini intanto, viste le difficoltà a reperire un mezzo di trasporto, abbandonano Audisio in prefettura, e vanno a cercare aiuto nella sede del Partito Comunista. Accompagnati da Mario Ferro e Giovanni Aglietto della federazione comasca P.C.I., lasciano Como verso le 10 e arrivano a Dongo poco dopo Audisio. Intanto giungono da Como anche Oscar Sforni, segretario del CLN comasco, e il maggiore Cosimo Maria De Angelis, responsabile militare del CLNAI per la zona di Como, inviati dal CLN comasco col compito di far rispettare le decisioni prese in mattinata, e di trasportare Mussolini a Como. I due però, intralciando i propositi di "Valerio", saranno da questi fatti imprigionare e verranno rilasciati solo a operazione conclusa.
A Dongo, "Valerio" trova un ambiente difficile e ostile, poiché i partigiani lariani temono un colpo di mano dei fascisti per liberare i catturati. Il "Colonnello" s'incontra con il comandante Pier Luigi Bellini delle Stelle "Pedro", comunicandogli di aver avuto l'ordine di fucilare Mussolini e gli altri prigionieri. "Pedro" però non intende aderire all'ordine e protesta vivamente, ma dopo aver preso visione delle credenziali e ritenendole sufficienti, è costretto a ubbidire a un ufficiale di grado superiore[51].
Alle 15:15 Walter Audisio "Valerio" invia "Pedro" a Germasino a prendere gli altri prigionieri, e parte da Dongo con una Fiat 1100 nera in direzione di Bonzanigo, dove l'ex dittatore è tenuto prigioniero con la Petacci. Sono con lui Aldo Lampredi "Guido", Michele Moretti “Pietro”, che conosceva i carcerieri e il luogo essendoci già stato la notte prima, più l'autista ”Andrea"[senza fonte] (Giovanni Battista Geninazza).
Moretti è armato di mitra francese MAS 38, calibro 7,65 lungo[52]; Lampredi è armato di pistola Beretta modello 1934, calibro 9 × 17 mm[nota 14]. L'arma di Walter Audisio, un mitra Thompson, sarà successivamente riconsegnata al commissario politico della divisione partigiana dell'Oltrepò, Alberto Maria Cavallotti, senza essere stata utilizzata[53].
Le varie versioni dei fatti, fornite o riferite da Walter Audisio, pur differendo su particolari minori, descrivono la stessa meccanica dell'evento. L'ultima descrizione degli stessi, pubblicata postuma, a cura della moglie di Audisio[54], è sostanzialmente confermata dal memoriale di Aldo Lampredi, consegnato nel 1972 e pubblicato su l'Unità nel 1996[55].
Giunti a casa De Maria, sempre sorvegliata da "Sandrino" e "Lino", sollecitano Mussolini, trovato stanco e dimesso, e la Petacci a lasciare rapidamente l'abitazione. In strada i prigionieri sono fatti sedere nei sedili posteriori della vettura e vengono accompagnati nel luogo precedentemente scelto per l'esecuzione poco distante[nota 15]: si tratta di un angusto vialetto, via XXIV Maggio a Giulino, in posizione assai riparata davanti a Villa Belmonte, una graziosa residenza di villeggiatura. Qui i due sono obbligati a scendere.
Moretti e Lampredi sono inviati a bloccare la strada nelle due direzioni, mentre a Mussolini viene fatto cenno di dirigersi verso il cancello. Sembra smarrito, Claretta piange. "Valerio" sospinge Mussolini verso l'inferriata e pronuncia la sentenza: "Per ordine del Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano" e, rivolgendosi a Claretta che si aggrappava all'amante: "Togliti di lì se non vuoi morire anche tu". Tenta di procedere nell'esecuzione ma il suo mitra si inceppa; Lampredi si avvicina, estrae la sua pistola, ma anche da questa il colpo non parte, chiama allora Moretti che, di corsa, gli porta il suo mitra. Con tale arma il "colonnello Valerio" scarica una raffica mortale di cinque colpi sull'ex capo del fascismo. La Petacci, postasi sulla traiettoria del mitra, è colpita e uccisa anch'ella. Viene poi inferto un colpo di grazia al cuore di Mussolini con la pistola[nota 16][nota 17]. Sul luogo dell'esecuzione furono poi rinvenuti proiettili calibro 7,65, compatibili con quelli del mitra francese del Moretti[nota 17]. Sono le ore 16:10 del giorno 28 aprile 1945.
L'edizione locale del l'Unità, il giorno seguente, riporta il fatto con questo titolo a tutta pagina: "Mussolini e i suoi accoliti giustiziati dai patrioti nel nome del popolo"[56]; mentre l'edizione nazionale del 1º maggio riporta in prima pagina un'intervista col partigiano - di cui non viene fatto il nome - che "ha giustiziato il Duce", intitolata: "Da una distanza di 3 passi sparai 5 colpi a Mussolini".
Walter Audisio era al tempo ufficiale addetto al Comando generale delle Brigate d'assalto Garibaldi e a quello del CVL. Essendo noto solo negli ambienti di militanza e non avendo mai dato modo di parlare di sé, non fu inizialmente identificato come l'uccisore di Mussolini: le cronache infatti, riferivano che l'ex duce era stato fucilato dal "colonnello Valerio", senza conoscerne l'esatta identità. La sua figura emerse direttamente, con riferimento a questi fatti, solo nel marzo 1947, quando il quotidiano l'Unità, organo del PCI, di cui Audisio fu poi deputato, diede notizia del suo coinvolgimento.
Nel volume "In nome del popolo italiano", uscito postumo, Audisio sostenne che le decisioni prese nel primo pomeriggio del 28 aprile a Dongo, nell'incontro con il comandante della 52ª Brigata, Bellini delle Stelle, fossero equivalenti a una sentenza emessa da un organismo regolarmente costituito ai sensi dell'art. 15 del documento del CLNAI sulla costituzione dei tribunali di guerra[57]. Non tutti sono d'accordo con questa interpretazione in quanto, nell'occasione, mancava la presenza di un magistrato e di un commissario di guerra[58]. Dell'intera questione si occupò anche la magistratura penale ordinaria, investita dal giudice civile, cui si erano rivolti i familiari dei Petacci e di Pietro Calistri per risarcimento danni. Nei confronti di Audisio, all'epoca parlamentare, l'apposita Giunta concesse l'autorizzazione a procedere. Il processo si chiuse definitivamente il 7 luglio 1967, quando il giudice istruttore assolse il "colonnello Valerio" dall'accusa di omicidio volontario pluriaggravato, appropriazione indebita e vilipendio di cadavere, perché i fatti erano avvenuti nel corso di un'azione di guerra partigiana per la necessità di lotta contro i tedeschi ed i fascisti nel periodo della occupazione nemica e come tali non furono ritenuti punibili[59].
Contatti segreti tra il duce ed emissari britannici erano avvenuti a Porto Ceresio (VA), presso il confine svizzero, il 21 settembre 1944 e il 21 gennaio 1945[60][61]; inoltre, il testo delle intercettazioni telefoniche effettuate dai servizi segreti tedeschi a Salò, sulle conversazioni di Mussolini[62], suggeriscono l'esistenza di possibili accordi segreti e di uno scambio di lettere tra il dittatore italiano e il Primo ministro inglese Winston Churchill, anche se è ancora aleatorio definire il contenuto di tale carteggio. Il 27 aprile 1945, al momento della sua cattura, secondo le testimonianze di coloro che hanno dichiarato di averle ispezionate in quei giorni (partigiani, funzionari, ecc.) Mussolini aveva con sé una borsa piena di documenti[nota 9] contenente, tra l'altro, parte della sua corrispondenza con Churchill[63][64], ma di cui non è stata accertata la datazione. Nell'immediato dopoguerra, Churchill e i servizi segreti britannici, peraltro, si sarebbero mossi per recuperare tutte le copie di tale carteggio[65].
Alla scomparsa successiva all'arresto di Mussolini di tali documenti particolarmente segreti, divenuti noti come il "carteggio Churchill-Mussolini", si ricollegherebbe una versione sull'uccisione del capo del fascismo di cui al memoriale dell'ex comandante della divisione partigiana formata dalla 111ª, 112ª e 113ª Brigata Garibaldi, Bruno Giovanni Lonati "Giacomo"[66]. In tale pubblicazione, uscita nell'autunno 1994 quasi cinquant'anni dopo i fatti, l'autore scrive di essere stato l'autore dell'uccisione di Mussolini, il 28 aprile 1945, poco dopo le ore 11, in una stradina laterale di fronte casa De Maria, a Bonzanigo di Mezzegra, nell'ambito di una missione segreta diretta da un agente inglese. Lo scopo della missione sarebbe stato quello di impedire la diffusione del contenuto del carteggio, recuperandolo e sopprimendo Mussolini e Claretta Petacci, essendo quest'ultima perfettamente informata sull'esistenza di tali rapporti.
In base a tale versione dei fatti, Lonati sarebbe stato contattato da un agente inglese il giorno precedente a Milano alle ore 16 e, per lo svolgimento della missione, avrebbe costituito una squadra composta da altri tre partigiani. Il “commando” sarebbe stato messo a conoscenza del luogo esatto ove si trovavano i prigionieri, intorno alle ore otto del mattino del giorno 28, grazie a un altro agente, detto "L'alpino", posizionato a Tremezzo. Dopo una sparatoria per superare un posto di blocco nei pressi di Argegno, ove uno dei tre partigiani del “commando” avrebbe perso la vita, la squadra sarebbe giunta a Bonzanigo e avrebbe avuto facilmente ragione dei guardiani della coppia. L'esecuzione sarebbe stata effettuata con mitra Sten. Il carteggio Churchill-Mussolini non poté essere recuperato, ma, dopo aver effettuato alcune foto ai cadaveri, l'agente inglese avrebbe concordato il silenzio di Lonati e dei due partigiani superstiti per altri cinquant'anni. Per tale motivo Lonati avrebbe scritto il suo memoriale solo nel 1994. Nel frattempo, nel 1982, Lonati si sarebbe recato dal console inglese a Milano, il quale gli avrebbe anche mostrato le foto scattate a suo tempo dall'agente segreto “John” e avrebbe approvato il testo di una dichiarazione[nota 19] da spedire a Lonati allo scadere dei cinquant'anni, a conferma di tale versione dei fatti.[67]
Tale versione è stata accreditata da Peter Tompkins[68], scrittore ed ex agente segreto statunitense e dallo storico Luciano Garibaldi[69].
Questa ricostruzione è avvalorata dalle seguenti circostanze:
Luigi Longo, comandante in capo di tutte le brigate Garibaldi, secondo Tompkins, sarebbe giunto sul posto subito dopo la duplice uccisione, avrebbe architettato una “finta fucilazione” e la versione dell'uccisione “per errore” della Petacci, per poi legare al segreto per cinquant'anni tutti i partigiani presenti[75]. A tal proposito non si può non tener conto della ricostruzione fornita nel 1993 da Urbano Lazzaro, il partigiano “Bill”, vice commissario politico della colonna partigiana autrice della cattura, nella quale si dichiara che il personaggio presentatosi a Dongo il 28 aprile 1945, con il nome di battaglia di "Colonnello Valerio" fosse proprio Luigi Longo e non Walter Audisio, come comunemente si sostiene[nota 20].
La versione di Bruno Lonati è tuttavia contraddetta, oltre che dalla versione storica di cui è fatto cenno in premessa, anche da altri elementi:
Oltre alla versione storica e all'"ipotesi inglese", sono sorte, negli anni, differenti versioni della duplice uccisione.
Dopo la fucilazione del Duce e della Petacci a Giulino, i partigiani "Lino" (Giuseppe Frangi) e "Sandrino" (Guglielmo Cantoni) rimasero a guardia dei corpi esanimi davanti al cancello di Villa Belmonte, mentre Audisio partì per Dongo, dove arrivò verso le ore 17:00 del 28 aprile, per dirigere la fucilazione degli altri gerarchi fascisti, che nel frattempo erano stati radunati nella piazza comunale lungolago davanti al municipio di Palazzo Manzi (la piazza oggi è dedicata al partigiano Giulio Paracchini).
I nominativi dei condannati erano già stati indicati da "Valerio" stesso prima di partire per la Tremezzina, osservando la lista dei prigionieri italiani catturati dalla 52ª Brigata Garibaldi "Luigi Clerici", e si trattava di:
Ad essi va aggiunto anche Marcello Petacci, il fratello di Claretta, che al momento dell'arresto si spacciava per un console spagnolo. Lampredi, che conosceva il castigliano, a differenza di Audisio che non andò mai in Spagna perché confinato a Ventotene[nota 23], aveva smascherato subito il millantatore e, scambiandolo per Vittorio Mussolini, figlio del Duce, aveva ordinato la sua fucilazione immediata. Urbano Lazzaro "Bill", scoprendo finalmente la sua vera identità, l'aveva però sospesa.
L'appena nominato sindaco di Dongo, l'avvocato Giuseppe Rubini, figlio del politico Giulio Rubini, cercò di porre il veto opponendosi all'esecuzione ma, non riuscendo a ottenere risposta, ritirò dalla finestra del municipio la bandiera italiana esposta, e si rinchiuse in casa[94].
I giustiziandi furono quindi allineati contro la ringhiera metallica rivolta verso il Lago, con il viso verso la riva e le spalle verso il plotone d'esecuzione; viene respinta la richiesta di Barracu di non essere fucilato alla schiena. L'esecuzione fu comandata da Alfredo Mordini (nome di battaglia: "Riccardo"), già combattente garibaldino nella guerra civile spagnola[95]. Essi, dopo aver ricevuto una comune assoluzione da padre Ferrari Accursio del vicino santuario francescano "Madonna delle lacrime", a cui "Valerio" concesse tre minuti per fornire i conforti religiosi ai condannati, furono giustiziati alle ore 17:48 (testimonianza di Rubini).
Il numero dei fucilati eguagliò quello dei partigiani che il 10 agosto 1944, per rappresaglia, i tedeschi fecero fucilare dai fascisti ed esporre al pubblico in Piazzale Loreto a Milano; ciò dimostrerebbe l'intenzione di voler vendicare quella strage (anche se in realtà, con Mussolini, Clara e Marcello Petacci, gli uccisi furono 18). Terminata la fucilazione ci si accorse che non tutti i gerarchi erano morti e perciò il plotone riprese a sparare disordinatamente sui corpi a terra per due minuti circa; quindi, ristabilito l'ordine, furono inflitti i colpi di grazia[96]. La fucilazione fu ripresa dal fotografo dilettante Luca Schenini, commerciante di Dongo, e il filmato fu sequestrato dallo stesso Audisio.
Marcello Petacci fu ucciso dopo gli altri perché i gerarchi non lo consideravano dei loro. Anzi, al momento dell'allineamento, lo insultarono dicendo che era un "ruffiano"[nota 24] e chiesero un'esecuzione separata, richiesta che venne accettata. Arrivato il suo turno, però, riuscì a fuggire e a gettarsi nelle fredde acque del lago dove venne raggiunto da una pioggia di proiettili che lo finirono.
Sempre a Dongo, i 15 cadaveri dei gerarchi fascisti fucilati, più il corpo di Marcello Petacci, furono tutti caricati su un camion; sopra di loro fu steso un telo, su cui siederanno i partigiani durante il viaggio. Il veicolo partì alla volta di Milano verso le 18:00, fermandosi prima ad Azzano-Giulino per recuperare i corpi di Mussolini e della Petacci, che nel frattempo furono lasciati sotto la pioggia[97]. Durante il viaggio di ritorno, la colonna dei partigiani fu costretta a fermarsi in diversi posti di blocco di altre brigate; in particolare a Milano, in via Fabio Filzi, all'altezza dello stabilimento della Pirelli, durante un controllo operato da una formazione della divisione "Ticino", sorsero momenti di tensione quando i partigiani a bordo del camion si rifiutarono di mostrare i corpi trasportati. Le due formazioni armate si fronteggiarono sino all'intervento del comando generale, che permise il proseguimento della colonna alla vicina destinazione finale.
Alle 3:40 di domenica 29 aprile la colonna giunse in piazzale Loreto, meta che secondo Walter Audisio non fu casuale o improvvisata, ma meditata[98] per il suo valore simbolico. Qui Valerio decise di scaricare i cadaveri a terra, proprio dove le vittime della strage del 10 agosto 1944 furono abbandonate, in custodia ai militi fascisti della Muti, che li avevano dileggiati e lasciati esposti al sole per l'intera giornata, impedendo ai familiari di portarli via.
In piazzale Loreto furono portati in totale diciotto cadaveri: Benito Mussolini, Clara Petacci e i sedici giustiziati a Dongo.
Verso le 7 del mattino, mentre i partigiani lasciati di guardia alle salme ancora dormivano, alcuni passanti si accorsero dei cadaveri. Complice un passaparola che in poco tempo attraversò tutta Milano, la piazza si riempì velocemente. Non era stata prevista alcuna misura di contenimento: nella calca le prime file di folla vennero spinte verso i cadaveri, calpestandoli e sfigurandoli. Molti insultavano, dileggiavano, sputavano e prendevano a calci i cadaveri. Una donna sparò al cadavere di Mussolini cinque colpi di pistola per vendicare i propri cinque figli morti in guerra[99][nota 25]. Mentre sui cadaveri venivano gettati ortaggi, a Mussolini, per dileggio, venne messo in mano un gagliardetto fascista. Qualcuno orinò sul cadavere della Petacci. Alle 11 la situazione non era più governabile neanche con scariche di mitra. Una squadra di Vigili del Fuoco giunta con un'autobotte lavò abbondantemente i cadaveri imbrattati di sangue, sputi, orina e ortaggi.
A quel punto gli stessi pompieri trassero via dal centro della piazza i sette cadaveri più noti, issandoli per i piedi alla pensilina del distributore di carburante della Standard Esso, che si trovava all'angolo tra la piazza e corso Buenos Aires, lasciandoli appesi a testa in giù[99][nota 26][nota 27]. Si trattava dei corpi di Mussolini, di Claretta Petacci alla quale, essendo stata privata delle mutande, venne dapprima fermata la gonna con una spilla e infine assicurata meglio con la cintura che il cappellano partigiano don Pollarolo si sfilò appositamente[100], di Alessandro Pavolini, di Paolo Zerbino, di Ferdinando Mezzasoma, di Marcello Petacci e di Francesco Maria Barracu[101], il cui cadavere però cadde subito a terra e verrà sostituito con quello di Achille Starace[100].
Arrivarono sul luogo anche numerosi fotografi e, nel corso della mattinata, arrivò anche una pattuglia di soldati americani assieme a una troupe di cineoperatori militari che filmò la scena, che successivamente sarà inserita in uno dei combat film prodotti nel corso del conflitto; un altro filmato venne girato da Carlo Nebbiolo, presente sul luogo assieme al fotografo Fedele Toscani (padre di Oliviero) dell'agenzia Publifoto, la pellicola del suo filmato fu sequestrata dalle truppe alleate e restituita in seguito con vistosi tagli, tra cui l'eliminazione della sequenza sulla fucilazione di Starace[102]. Le numerose fotografie scattate in quelle ore animarono, nei giorni seguenti, un fiorente mercato, venendo vendute come un ricercato "souvenir di un momento vissuto", bloccato dopo due settimane dal nuovo prefetto cittadino che ordinò l'immediato sequestro delle fotografie dalle cartolerie e la loro rimozione da ogni luogo pubblico[103].
Verso mezzogiorno, con una camionetta, venne condotto sul luogo anche Achille Starace, ex segretario generale del Partito Nazionale Fascista, arrestato per le vie di Milano in zona ticinese, giudicato in un'aula del vicino Politecnico e fucilato da un plotone improvvisato di partigiani[104] alla schiena, sul marciapiede a lato del distributore ove erano stati appesi gli altri cadaveri.
Nel primo pomeriggio una squadra di partigiani del distaccamento "Canevari" della brigata "Crespi", su ordine del comando, entrò in piazza e rimosse i cadaveri[105] trasportandoli nel vicino obitorio di Via Ponzio.
In serata, il CLNAI riunito emanò un comunicato con il quale si assumeva la responsabilità dell'esecuzione di Mussolini quale conclusione necessaria di una lotta insurrezionale. La massima istituzione resistenziale affermava la volontà di rompere con il fascismo, segnando la fine di un periodo storico di vergogne e di delitti ed inaugurando l'avvento di una nuova Italia, fondata sull'alleanza delle forze che avevano preso parte alla lotta contro la dittatura[106].
La scena sarà così descritta dal poeta Ezra Pound, sostenitore del fascismo, in una sua lirica:
«L'enorme tragedia del sogno sulle spalle curve del/ contadino/ Manes! Manes fu conciato e impagliato / Così Ben e la Clara a Milano / per i calcagni a Milano / Che i vermi mangiassero il torello morto»
Il giorno seguente, alle ore 7:30, presso il civico obitorio dell'Istituto di medicina legale dell'Università di Milano in via Ponzio, il professor Caio Mario Cattabeni[nota 28], sotto la sorveglianza del generale medico "Guido"[nota 29], effettuò l'autopsia sul solo corpo di Mussolini[nota 30]. Il riscontro diagnostico evidenziò sul cadavere sette fori di proiettile in entrata e sette fori in uscita sicuramente prodotti in vita e sei fori successivi alla morte e individuò come causa mortis la recisione dell'aorta da parte di un proiettile. L'autopsia venne eseguita, scrisse Cattabeni, "in condizioni di tempo e di luogo del tutto eccezionali" entro "una sala anatomica dove facevano irruzione ogni tanto, per l'assenza di un servizio armato d'ordine pubblico, giornalisti, partigiani e popolo".
Prima e dopo l'autopsia furono scattate numerose fotografie, sia mettendo macabramente in posa i cadaveri di Mussolini e della Petacci abbracciati, sia dell'équipe forense a fianco del cadavere, immagini del cadavere svestito col torace ricucito a fine autopsia e infine dei corpi deposti entro le casse di legno usate come bare.
Qualche giorno dopo l'autopsia, il 4 maggio, le autorità militari alleate richiesero al CLN Alta Italia, a titolo di favore, un campione di tessuto cerebrale del defunto da inviare a Wilfred Overholser, direttore dell'ospedale psichiatrico St. Elizabeth di Washington, garantendo che verrà utilizzato per scopi scientifici e i risultati della sua analisi non saranno soggetti a pubblicazione[nota 31]: lo scopo di medical intelligence escludente pubblicazioni sarà ribadito nella ricevuta rilasciata il 24 maggio alla consegna del campione.
Il 9 giugno il colonnello Poletti richiese infine due copie autenticate del referto dell'autopsia da consegnare al console americano a Lugano, incaricato di redigere un rapporto ufficiale sugli ultimi giorni di vita di Mussolini.
Nel novembre 2009 alcuni vetrini istologici con sezioni del cervello vennero posti in vendita su E-bay, con una base d'asta di 15.000 euro, da un collezionista italiano di cimeli storici, che li aveva avuti in dono da un tecnico analista, assistente di Cattabeni, incaricato di preparare i reperti nel maggio 1945[107]. L'offerta di vendita fu ritirata dal sito dopo poche ore, in quanto contraria alla politica del sito che vieta la vendita di materiale organico umano.[108]
La salma di Mussolini fu seppellita anonima nel cimitero Maggiore di Milano, in data 5 agosto 1945, presso il "Campo 10", successivamente al "Campo 16", tomba numero 7.[109] Il tumulo aveva il numero 384 e sebbene non vi fosse stato apposto alcun nome, proprio per evitare di far identificare il cadavere, ben presto la gente individuò il posto, che divenne meta di molti curiosi e di qualche commosso nostalgico.
La notte tra il 22 aprile e il 23 aprile 1946, all'approssimarsi del primo anniversario della sua morte, tre fascisti, Mauro Rana, Antonio Parozzi e Domenico Leccisi, facenti parte del Partito Democratico Fascista, ne trafugarono la salma. In due lettere all'Avanti! e all'Unità il gruppo comunicò che il partito fascista, non avendo ottenuto risposta alle richieste di una sepoltura di Mussolini, aveva deciso di prendere in custodia la salma. Si scatenò la caccia alla salma, che la voce popolare chiamò il salmone[110].
Si sospettò anche che fosse stata trafugata allo scopo di richiedere un riscatto, quantunque i familiari di Mussolini, i più probabili diretti interessati, erano, ovviamente, di impervia rintracciabilità e comunque non disponevano di agi tali da giustificare l'eventuale estorsione. Il 7 maggio, dopo varie peripezie, i trafugatori decisero di consegnarla ai frati minori dell'Angelicum di Milano nelle mani dei padri Alberto Parini ed Enrico Zucca[110].
La salma rimase nascosta nel convento per qualche tempo, e trasferita tra maggio e luglio presso la Certosa di Pavia[109], fino a che la polizia non venne a sapere tutta la storia dalla fidanzata di un amico di Leccisi. Padre Parini, che inizialmente aveva opposto un labile rifiuto a collaborare adducendo il "segreto confessionale", decise infine di rivelare dove si trovava il corpo solo a patto che gli fosse garantita una sepoltura degna e occulta. Si arrivò a una soluzione anche grazie all'interessamento di Alcide De Gasperi e del Papa: il 12 agosto 1946 il cadavere venne restituito al questore Vincenzo Agnesina[110], ma si dovette eseguire un ulteriore esame necroscopico per confermare l'identità dei resti[nota 32].
Il 30 agosto 1957, durante il governo Zoli, la cui famiglia era originaria di Predappio, e il cui governo in parlamento abbisognava dell'appoggio esterno dei deputati missini tra cui Leccisi, la salma di Mussolini, segretamente conservata nel convento dei Cappuccini di Cerro Maggiore, venne riconsegnata alla vedova, la quale ne aveva richiesta la restituzione alla famiglia più volte nel corso degli anni[111]. In questa occasione, anche il cervello, che era stato prelevato durante l'autopsia e conservato in formalina nell'Istituto di medicina legale di Milano, venne restituito[112].
Tutti i resti furono seppelliti il 1º settembre 1957 nel cimitero monumentale di San Cassiano in Pennino, vicino a Predappio, dove tuttora si trovano.
La fuga del Duce da Milano, la sua cattura a Dongo e la successiva esecuzione, vengono raccontati nel film del 1974 intitolato Mussolini ultimo atto per la regia di Carlo Lizzani.[113]