Critica del giudizio | |
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Titolo originale | Kritik der Urteilskraft |
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Autore | Immanuel Kant |
1ª ed. originale | 1790 |
Genere | saggio |
Sottogenere | filosofia |
Lingua originale | tedesco |
Preceduto da | Critica della ragion pratica |
La Critica del giudizio (in tedesco: Kritik der Urteilskraft[1], talvolta abbreviata: KdU) è un'opera di Immanuel Kant pubblicata nel 1790, nella quale il filosofo conduce un'analisi "critica" della facoltà di giudizio di tipo "estetico". L'analisi anticipò temi e modi di sentire fatti propri, di lì a poco, non senza fraintendimenti interpretativi, dai maggiori esponenti del Romanticismo e dell'Idealismo, configurandosi quindi come ponte ideale tra le teorie estetiche del XVIII secolo (di Alexander Gottlieb Baumgarten[2], Edmund Burke[3], David Hume[4], Charles Batteux[5]), citate nell'opera stessa, e quelle successive alla filosofia kantiana.[6]
Dopo aver terminato la Critica della ragion pura, pubblicata in due edizioni nel 1781 e nel 1787, Kant conclude nel 1788 la Critica della ragion pratica. Nel 1790 egli, come scrive nella Prefazione alla Critica del giudizio, sente la necessità di scrivere una terza Critica per completare quello che chiama il "sistema della critica". Nella stessa Prefazione Kant osserva che se vi sono tre Critiche, vi sono però solo due parti della Metafisica, la quale si occupa infatti di due oggetti soltanto: la natura e la morale. Per questo motivo Kant scrive i Primi principi metafisici della scienza della natura nel 1786 e l'Opus postumum, e ad essi affianca la Metafisica dei costumi nel 1797. Non vi è però nessuna parte della metafisica che corrisponda alla Critica del giudizio.[7]
Nella Critica della ragion pura Kant aveva trattato della giustificazione dei giudizi scientifici, ridando fondamento teorico al rapporto di causa-effetto in virtù del quale la natura si presentava determinata secondo necessità (vigendo «il dominio del concetto della natura, o il sensibile»). L'uomo quindi, quando agisce nella natura, è sottoposto alla necessità delle leggi causali.
Lo stesso uomo però nella Critica della ragion pratica quando agisce moralmente tende ad acquisire una sempre maggior libertà (vigendo qui «il dominio del concetto della libertà, o il soprasensibile»).
Come e dove si conciliano nell'uomo questi due aspetti contrapposti di necessità e libertà? Questo è il problema da risolvere affidato alla Critica del giudizio.
«Sebbene vi sia un incommensurabile abisso tra il dominio del concetto della natura o il sensibile, e il dominio del concetto della libertà o il soprasensibile, in modo che nessun passaggio sia possibile dal primo al secondo (mediante l'uso teoretico della ragione) quasi fossero due mondi tanto diversi che l'uno non potesse avere alcun influsso sull'altro... tuttavia il secondo [il mondo della libertà] deve avere un influsso sul primo [il mondo della necessità], cioè il concetto della libertà deve realizzare nel mondo sensibile lo scopo posto mediante le sue leggi e la natura deve poter essere pensata in modo che la conformità alle leggi che costituiscono la sua forma possa accordarsi con la possibilità degli scopi che in esse debbono essere effettuati secondo leggi della libertà.»
L'accordo tra il mondo della necessità naturale e quello della libertà viene dunque trovato da Kant in ciò che egli chiama "giudizio riflettente".
A differenza del giudizio "determinante" (o giudizio sintetico a priori) che il soggetto metteva in atto per conoscere gli oggetti attraverso le dodici categorie dell'intelletto, il termine "riflettente" sta adesso ad indicare che il soggetto "riflette" come uno specchio la realtà interiore su quella esterna.
Nei giudizi determinanti della ragione teoretica (studiati nella Critica della ragion pura), "conoscere" significava collegare un oggetto ad un altro (unendo linguisticamente un predicato a un soggetto), ponendo ad esempio in relazione a con b; nel giudizio riflettente, invece, conoscere significa collegare a con s, cioè con sé stessi, attribuendo ad a una finalità o uno scopo che portiamo dentro di noi.[8] Ciò significa che l'autore di quel collegamento ora è coinvolto nel giudizio stesso che egli dà.
In questo caso la ragione non è più sottoposta alla necessità delle leggi conoscitive di causa-effetto, ma è libera nel formulare i propri legami associativi, e vive perciò la dimensione dell'assoluto che era preclusa invece alla pura ragione. La libertà, che nella ragion pratica era un postulato verso cui tendeva l'agire etico dell'uomo, ora non è più solo un ideale da raggiungere ma una realtà.
Il giudizio riflettente quindi serve:
In tal senso il giudizio riflettente si esprime:
«permette di ritrovare una finalità negli oggetti belli, fa ritrovare al soggetto riflessa negli oggetti belli l’esigenza di finalismo, nel senso che gli oggetti belli sembrano essere fatti al fine di suscitare emozioni estetiche, di suscitare un senso di armonia in chi li contempla, quindi danno l’impressione di avere una finalità rivolta verso chi fruisce dell’opera d’arte, chi fruisce della bellezza, cioè verso l’osservatore, il soggetto. Per questo Kant dice che i giudizi estetici sono giudizi riflettenti di finalità soggettiva, in cui cioè la finalità sembra essere rivolta al soggetto.[9]»
Come già visto nella critica della ragion pura, anche in quest'opera Kant compie una rivoluzione copernicana: il bello non è una qualità oggettiva (propria) delle cose, non esistono oggetti belli di per sé, ma è l'uomo ad attribuire tale caratteristica agli oggetti. Il giudizio estetico basato sul sentimento del bello è quello con cui noi avvertiamo la bellezza e l'armonia di un'opera o di un paesaggio realizzando un accordo tra l'oggetto sensibile (ciò che percepiamo e su cui "riflettiamo", "rispecchiamo" all'esterno il nostro sentimento del bello) e l'esigenza di libertà (ciò che noi liberamente sentiamo).
La definizione della bellezza si articola, nell'Analitica del Bello della Critica del giudizio, secondo i seguenti quattro "momenti" logici:
Lo stesso argomento in dettaglio: Principio di determinazione.
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Kant dice che si tratta in questo caso di "una normalità senza norma", di "libero gioco di immaginazione ed intelletto" dove l'immaginazione conferisce la "libertà" dell'intuizione estetica mentre l'intelletto dà "legalità" ossia regolarità all'immaginazione, senza la quale essa sarebbe "fantasticheria fine a sé stessa" (Schwärmerei) e insensatezza (Unsinn).
La stessa contemplazione degli oggetti belli è in grado di educare il gusto estetico e di portare l'uomo al riconoscimento necessario della loro bellezza.
Poiché segue regole sue proprie, Kant tiene a sottolineare che il "bello" è diverso:
Più intenso del sentimento del bello è quello del sublime, che va distinto dal bello. Mentre quest'ultimo è qualcosa che ha forma, quindi proporzione e armonia, il sublime invece è informe ed illimitato. Inoltre, mentre la bellezza può essere attribuita agli oggetti naturali, il vero sublime non può essere riferito a tali oggetti, ma è un sentimento dell'animo:
«Da ciò si vede subito che ci esprimiamo del tutto impropriamente, quando diciamo sublime un qualsiasi oggetto naturale, anche se a moltissimi di tali oggetti possiamo con piena proprietà attribuire la bellezza»
«Il sentimento estetico del sublime è un piacere o senso di esaltazione che segue a un senso di depressione delle nostre energie vitali. Il piacere del sublime è diverso da quello del bello; questo infatti produce direttamente un sentimento di esaltazione della vita; quello invece è un piacere che ha solo un’origine indiretta, giacché esso sorge dal sentimento di un momentaneo arresto delle energie vitali, seguito da una più intensa loro esaltazione.[14]»
Il sublime può essere:
Inoltre, la sostanziale differenza tra bello e sublime in rapporto alle facoltà conoscitive è che mentre quest'ultimo è il frutto del libero gioco tra immaginazione ed intelletto, il sublime è caratterizzato dall'incommensurabilità dell'immaginazione nei confronti delle idee della ragione, determinandone un rapporto di sudditanza: questa rapporto di sproporzione genera il sentimento di "rispetto" (Achtung).
Il sentimento del sublime matematico è quello per il quale tutti noi di fronte a fenomeni di smisurata grandezza (lo spazio cosmico) o di smisurata potenza naturale (sublime dinamico), proviamo, per i nostri stessi limiti, un senso d'insufficienza, di paura, timore. Ma in un secondo tempo, quando riemerge la nostra razionale volontà, questo sentimento della propria impotenza sensibile rivela per contrasto la coscienza di una potenza illimitata, di una nostra superiorità in quanto razionalità operante che trasforma in positivo il precedente sentimento negativo.
Tanto il sublime matematico quanto quello dinamico possono a loro volta essere suddivisi in:
La "Critica della facoltà teleologica di giudizio" occupa la seconda parte della "Critica della facoltà di giudizio". La sezione analizza la "conformità oggettiva della natura a scopi".
È con il giudizio teleologico (dal greco télos, "fine") che scopriamo nei fenomeni della natura una finalità.
«Sembra che gli organismi viventi ci facciano intuire che nella natura c’è un finalismo. Gli esseri biologici sono costituiti di parti che sembrano fatte “al fine” del tutto, ma c’è anche un finalismo superiore: sembra che tutta la natura abbia il fine di rendere possibile la vita dell’uomo. Sembrerebbe che tutti i regni, minerale, vegetale e animale, siano costruiti, organizzati, al fine di rendere sempre migliore la vita dell’uomo e sempre più possibile l’espressione dell’umano.»
Pur tuttavia tale finalità non è presente nella natura stessa ma ha la propria sede e giustificazione epistemologica nello stesso "giudizio riflettente", come condizione soggettiva. Esso consente, in accordo libero con le regole dell'intelletto, di "presagire", "prefigurare" la totalità dell'esperienza, totalità che dobbiamo premettere appunto nel caso, ad esempio, della conoscenza degli organismi. Pur tuttavia "tale totalità è soltanto regolativa e non si può trasformare in una concezione costitutiva".[17]
La teleologia kantiana verrà interpretata dalla filosofia romantica successiva come inesauribile e spontanea forza vitale dove si esprime la divinità. Pur tuttavia Kant è categorico nella distinzione tra teologia e teleologia:
«La scienza della natura, e l'occasione che essa dà per un giudizio teleologico dei suoi oggetti non sia mischiata con la considerazione di Dio e quindi con una derivazione teologica; e non si deve considerare come indifferente scambiare quell'espressione con quella di uno scopo divino nell'ordinamento della natura, o darla come più appropriata a un'anima pia, perché in fin dei conti si deve sempre arrivare a dedurre quelle forme finali della natura da un saggio creatore del mondo;...[18]»
e aggiunge nella stessa Critica
«Questi non significa ancora inferire dalla teleologia morale una teologia, cioè l’esistenza di un autore morale del mondo, ma solamente uno scopo finale della creazione che resta in tal modo determinato. Che ora per questa creazione, cioè per l’esistenza delle cose conformemente ad uno scopo finale, si debba ammettere in primo luogo un essere intelligente [...] e al tempo stesso morale come autore del mondo, quindi un Dio, questa è una seconda inferenza, la cui natura è tale da far riconoscere ch’essa è condotta per il Giudizio, secondo concetti della ragion pratica, quindi per il Giudizio riflettente e non per quello determinante. [...] La realtà d’un supremo autore e legislatore morale dell’universo è quindi sufficientemente provata per l’uso pratico della nostra ragione senza determinare teoricamente nulla in rapporto alla sua esistenza[19]»
Dalla teleologia, che il giudizio riflettente rende visibile nel mondo della natura non è lecito desumere una teologia che dimostri l'esistenza di Dio la quale, però, non è esclusa, come supposizione, dalla speculazione kantiana quando sostiene nella nota a chiusura della Critica della ragion pura che «il fine ultimo della ragion pura è nell'ideale del sommo bene» come confermano anche gli ultimi due capitoli della metodica (Architettonica della ragion pura, Storia della ragion pura). Quell'ideale del sommo bene, inteso come coincidenza di virtù e felicità apre la strada a quella che sarà la Critica della ragion pratica[20] dove prevaleva un formalismo morale che ora recupera la sua oggettività ricomprendendo quella felicità separata dal bene.
«E perché questa sia possibile, bisogna ammettere come postulati due proposizioni che non risultano alla volontà morale con la sua libertà: e tanto meno alla conoscenza razionale; l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima. Senza quella infatti la felicità non può far parte del sommo bene: l'essere in sé non sarebbe preordinato ad un acquisto della felicità di cui si sia degni, non sarebbe sommo bene, se non ci fosse una mente creatrice di tale ordine. E così senza l'immortalità dell'anima mancherebbe la condizione del conseguimento di tale felicità, il rendersene degno con una attività virtuosa che non ha fine. Le tre idee della ragione (mondo in sé, anima immortale, Dio esistente) che la conoscenza non riusciva a giustificare se non traendo la ragione in una logica illusoria, sono, a suo modo, dimostrate dalla spiritualità morale, la prima col suo stesso esserci come libertà; le altre come condizioni imprescindibili del suo esserci.[21]»