La filosofia medievale costituisce un imponente ripensamento dell'intera tradizione classica sotto la spinta delle domande poste dalle tre grandi religioni monoteiste.[2]
In Europa la diffusione del cristianesimo all'interno dell'Impero romano segnò la fine della filosofia ellenistica e l'inizio della Patristica, dalla quale si svilupperà la filosofia medievale.
La Patristica, cioè il pensiero degli antichi padri della Chiesa, rappresentò il primo tentativo di fusione fra la tradizione ebraica e la filosofia greca, di cui costoro cercarono di assimilare profondamente il senso del logos, concetto chiave della filosofia greca, in particolare di quella stoica e neoplatonica: logos significava la ragione e il fondamento universale del mondo,[3] in virtù del quale la realtà terrena veniva ricondotta ad un principio intellettivo ideale, in cui risiederebbe la vera dimensione dell'essere. Soprattutto in Plotino, l'ultimo dei grandi filosofi greci, si avvertiva il tema della trascendenza dell'Idea platonica, da lui concepita come la forza spirituale che plasma gli organismi viventi secondo un progetto prestabilito.
Se i primi cristiani accolsero con accenti diversi la filosofia pagana, senza identificare automaticamente i suoi sistemi di pensiero con il messaggio evangelico, e anzi con una certa coscienza critica che in Tertulliano si tramuta in aperta diffidenza,[4] Giustino fu invece tra i primi a identificare il Cristo incarnato con il logos dei greci, termine che egli trovava adoperato nel prologo di Giovanni.
Ad ogni modo, almeno fino al 200, la patristica si dedicò essenzialmente alla difesa del cristianesimo contro i suoi avversari. Tra costoro vi erano i cosiddetti "padri Apologisti". Solo in seguito cominciarono invece a sorgere i primi grandi sistemi di filosofia. Un importante contributo in tal senso venne da Clemente Alessandrino; come Giustino, anche Clemente arrivò a sostenere che Dio aveva dato la filosofia ai Greci «come un Testamento loro proprio».[5] Per lui la tradizione filosofica greca, quasi al pari della Legge mosaica per gli Ebrei, è ambito di "rivelazione": sono due rivoli che in definitiva vanno verso lo stesso Logos.
Il maggiore esponente della Patristica fu quindi Agostino di Ippona: questi divenne un vescovo neoplatonico, e conciliò la filosofia greca con la fede cristiana riprendendo da Plotino il tema delle tre nature o ipostasi divine (Uno, Intelletto e Anima) e identificandole con le tre Persone della Trinità cristiana (Padre, Figlio e Spirito Santo), ma concependo il loro rapporto di processione non più in senso degradante, ma in un'ottica di parità-consustanzialità.[6] Secondo Agostino ci sono dei limiti oltre i quali la ragione non può andare, ma se Dio illuminerà la nostra anima con la fede riuscirà a placare la nostra sete di conoscenza. Agostino riprese da Plotino anche la concezione del male come semplice "assenza" di Dio: esso è dovuto perciò alla disobbedienza umana. A causa del peccato originale nessun uomo è degno della salvezza, ma Dio può scegliere in anticipo chi salvare; ciò non toglie che noi possediamo comunque un libero arbitrio.
Con Agostino emerse tuttavia, su questo punto, una differenza peculiare della filosofia cristiana rispetto a quella greca, nella quale era certamente presente l'idea della contrapposizione tra bene e male, ma era assente la nozione del peccato, per cui non c'era una visione lineare della storia come percorso di riscatto verso la salvezza. Agostino invece ebbe presente come la lotta tra bene e male si svolge soprattutto nella storia. Ciò comportò anche una riabilitazione della dimensione terrena rispetto al giudizio negativo che ne aveva dato il platonismo. Ora anche il mondo e gli enti corporei hanno un loro valore e significato, in quanto frutti dell'amore di Dio. Si tratta di un Dio vivo e Personale che sceglie volontariamente di entrare nella storia umana. All'amore ascensivo tipico dell'eros greco, Agostino affiancò pertanto l'amore discensivo di Dio per le sue creature, proprio dell'agape cristiano.[7]
La valorizzazione della storia e dell'esistenza terrena portò nel V secolo ad una novità rispetto ai modelli orientali incentrati sull'esperienza mistica, e cioè alla nascita dell'attività monastica istituita da Benedetto da Norcia, autore della celebre regola «prega e lavora»: il lavoro manuale divenne un elemento importante nel percorso di salvezza del cristiano. Accanto alla vita spirituale c'è anche la vita quotidiana: si affaccia così per la prima volta l'idea del progresso, di un'evoluzione universale a cui ognuno è chiamato a contribuire, e che sarà un elemento centrale di tutta la filosofia medievale.
L'opera dei benedettini risultò tanto più importante anche per le ore dedicate allo studio: il loro lavoro di copiatura di testi antichi, non solo religiosi, ma anche scientifici e letterari, salvò infatti numerose opere dell'età greca e romana che poterono così attraversare i secoli e giungere all'età moderna. Il sapere allora diffuso dai monasteri e dalle abbazie poté inoltre facilmente ottenere il monopolio sull'insegnamento anche a seguito della definitiva chiusura dell'Accademia di Atene nel 529 ad opera di Giustiniano dopo vari periodi di alterne interruzioni della sua attività.
Dal V all'VIII secolo vi fu quindi l'ultimo sviluppo della Patristica, che consistette più che altro nella rielaborazione di dottrine già formulate, ma in parte anche in nuove riflessioni. Tra i più originali vi fu Boezio, ritenuto uno dei precursori della scolastica e della disputa sugli universali, riguardante la definizione delle essenze attribuibili a generi e specie universali.[8] Boezio suddivise la filosofia in tre tipi di esseri: gli intellettibili,[9] che sono gli esseri immateriali, concepibili solo dall'intelletto, senza l'ausilio dei sensi, come Dio, gli angeli, le anime; il ramo della filosofia che di questi si occupa è propriamente la teologia. Gli intelligibili invece sono gli intellettibili calati nelle realtà materiali, le quali vengono percepite dai sensi pur essendo sempre concepibili dall'intelletto. E infine la natura, oggetto della fisica, studiata da sette discipline che saranno suddivise in trivium e quadrivium.
Nello Pseudo-Dionigi l'Areopagita si trova invece la prima esplicita distinzione tra teologia negativa e teologia affermativa: mentre quest'ultima arriva a Dio tramite un progressivo accrescimento di tutte le qualità finite di ogni singolo oggetto, la prima al contrario procede per decrescita e diminuzione fino ad eliminare ogni contenuto dalla mente, poiché Dio, essendo superiore a tutte le realtà possibili e immaginabili, non è identificabile con nessuna di esse. Si notano in lui gli influssi del neoplatonismo agostiniano.
Anche l'irlandese Scoto Eriugena, teologo di epoca carolingia e autore del Periphyseon (o De divisione naturae), riprese la riflessione tipicamente agostiniana sul rapporto dualistico e complementare tra fede e ragione che in Dio necessariamente coincidono, risolvendolo in un cerchio; privilegiando la via negativa, egli vedeva Dio come superiore sia all'essere che al non-essere, come il punto in cui il dualismo della realtà si ricompone in unità. Egli seguì pertanto l'interpretazione di Dionigi l'Areopagita, del quale tradusse in latino il Corpus Areopagiticum, e del quale ribadì la concezione che le idee platoniche sussistono nel Verbo ma non coincidono con esso: sono infatti opera del Padre. Ritenendo gli universali ante rem, Scoto Eriugena prese quindi posizione a favore del realismo estremo nella disputa sugli universali.
Mentre in Europa si diffondeva il platonismo, durante tutto il Medioevo gli arabi avevano mantenuto viva la tradizione filosofica facente capo ad Aristotele, con commenti e traduzioni del filosofo greco, e sviluppando interessi per le scienze naturali. Si trattava di un aristotelismo penetrato in Medio Oriente attraverso l'interpretazione che ne aveva dato in epoca ellenistica Alessandro di Afrodisia, mescolato con motivi giudaici, cristiani, e soprattutto neoplatonici. In questo sincretismo di culture, favorito dall'espansione araba verso l'Occidente, fiorirono nuovi centri come Baghdad, Granada, Cordova, e Palermo.
Tra le figure più importanti dell'ambito islamico, che cercarono di conciliare l'adesione al Corano con le esigenze della ragione, vi furono Al-Kindi, Al-Farabi, Ibn Bajjah, Avicenna, e Averroè. Avicenna in particolare fu anche medico, autore di un Canone della medicina e del Libro della Guarigione, nei quali si proponeva di far guarire l'anima dall'ignoranza. Influenzato da Plotino, sostenne che il mondo non è creato nel tempo, ma originato per emanazione dall'Uno, secondo un processo di concause che vede Dio generare indirettamente i livelli astrali inferiori, l'ultimo dei quali è l'aristotelico Intelletto Attivo, da lui associato alla Luna. Pur essendone partecipi, i singoli uomini possiedono soltanto un intelletto potenziale.
Averroè invece presuppone che il mondo esista per l'azione diretta di Dio, ma sempre in un contesto fuori dal tempo. Sostenne in un'ottica neoplatonica e con un certo approccio panteistico una corrispondenza tra le Sfere Celesti e la Terra sublunare, ma a differenza di Avicenna separò anche l'Intelletto passivo dalle singole anime umane: per lui l'attività intellettiva, sia agente che potenziale, è unica e identica in tutti gli uomini, e non coincide con nessuno di essi. Sottoponendo a critica tutta la conoscenza, sottolineò come la percezione sensibile abbia bisogno dell'Intelletto Agente per elevarsi all'astrazione, senza il quale essa produce saperi variabili da uomo a uomo. In soccorso deve quindi giungere la religione, che si affianca alla ricerca filosofica riservata invece a pochi. La doppia verità, concetto attribuito erroneamente a lui, è in realtà una semplificazione della sua dottrina, che anzi ebbe presente come le verità di fede e di ragione debbano costituire un'unica sola verità, conoscibile dai più semplici tramite la rivelazione e i sentimenti, e dai filosofi cui spetta invece il compito di riflettere scientificamente sui dogmi religiosi presenti in forma allegorica nel Corano. Tra le numerose opere di Averroè, che spaziano nei campi più svariati, la più imponente fu il Commentario alle opere di Aristotele, che lo rese noto nell'Europa cristiana.[10]
In ambito ebraico, invece, si era avuto già con Filone di Alessandria (I secolo d.C.) un primo tentativo di conciliare la Legge mosaica con la filosofia platonica, tentativo tuttavia che aveva avuto maggior seguito presso i primi cristiani. Sarà con Avicebron, e poi con Mosè Maimonide, che si ha un effettivo confronto tra la fede ebraica e il retaggio culturale greco. Maimonide incentrò la sua riflessione su alcuni princìpi fermi riguardanti l'esistenza di Dio e la sua immortalità. Egli si servì dell'aristotelismo, influenzato anche nel suo caso da numerosi concetti neoplatonici, per conciliare la fede nella Torah e nel Talmud con forme razionali di speculazione filosofica, sostenendo la trascendenza di Dio, la libera volontà umana e divina, e l'origine creazionistica del mondo, ma negando come Averroè l'immortalità dell'anima individuale.
Lo stesso argomento in dettaglio: Filosofia scolastica e Prova ontologica.
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A partire dall'anno Mille è particolarmente significativa la nascita della filosofia scolastica, così chiamata dall'istituzione delle scholae, ossia di un sistema scolastico-educativo diffuso in tutta Europa, e che garantiva una sostanziale uniformità di insegnamento. Le origini della scolastica si possono rintracciare già in Carlo Magno, il quale, dando avvio alla "rinascita carolingia" aveva fondato ad Aquisgrana intorno al 794 la Schola palatina, per favorire l'istruzione delle genti e la diffusione del sapere servendosi dei monaci benedettini. Gli insegnamenti, concernenti le cosiddette «arti liberali», erano divisi in due rami:
Con l'Admonitio Generalis Carlo Magno aveva quindi cercato di formare un metodo di studio che fosse praticato in tutto il Sacro Romano Impero. Gradatamente si sviluppò così un tipo di insegnamento detto scolastico, che prenderà sempre più a distinguersi dall'ambiente monastico in cui era nato, sviluppando una forma di sapere più autonoma.
«Padre della Scolastica» è comunque considerato l'abate benedettino Anselmo d'Aosta,[11] poi divenuto arcivescovo di Canterbury, che cercò una convergenza tra fede e ragione nel solco della tradizione platonica e agostiniana. Le sue due opere principali vertono sull'argomento ontologico dell'esistenza di Dio, che nel Monologion viene da lui trattato a posteriori partendo dalla considerazione che, se qualcosa esiste, occorre ammettere un Essere supremo come principio della catena ontologica che lo rende possibile. Nel Proslogion, invece, Anselmo espone una prova a priori, in base alla quale Dio è l'Ente massimo di cui non si può pensare nulla di più grande; chi nega che a questo concetto dell'intelletto corrisponda una realtà, necessariamente si contraddice, perché allora si potrebbe pensare che l'Ente massimo sia minore di qualcosa ancora più grande che abbia anche l'esistenza.[12]
Anselmo fu un sostenitore della realtà degli universali come ante rem, cioè appunto a priori, precedenti l'esperienza. La sua posizione fu appoggiata da Guglielmo di Champeaux (esponente di un realismo oggi assimilabile più che altro all'idealismo)[13], ma avversata da Roscellino, fautore invece di un nominalismo estremo con cui giungeva a sostenere che le tre Persone della Trinità fossero tre realtà fra loro distinte, per quanto identiche per il potere e la volontà: la loro comune essenza, la divinità, era dunque solo un nome, un flatus vocis. Roscellino fu per questo accusato di triteismo. Nella polemica si inserì anche Pietro Abelardo, più favorevole al concettualismo, dando luogo a una disputa che fu il tratto caratteristico della Scolastica, protraendosi per vari secoli.
L'evoluzione dei centri urbani, intanto, favorita da una concezione del lavoro rivolta alla costruzione del benessere comune e incentrata sull'opera della collettività, aveva portato alla Rinascita dell'anno Mille e poi a quella del XII secolo, durante le quali i filosofi medioevali andarono sempre più stabilire le proprie sedi nelle scuole annesse alle cattedrali, o nelle Università come quelle di Bologna e Parigi. Tra gli istituti di nuova formazione acquistò notevole prestigio la scuola di Chartres, che si richiamava al pensiero neoplatonico di Agostino d'Ippona e di Boezio. Nell'ambito della disputa sugli universali gli scolastici di Chartres sostennero che le idee sono del tutto a priori, essendo creature del Padre, mentre sul piano cosmologico seguirono l'interpretazione data da Calcidio al Timeo di Platone, identificando lo Spirito Santo con la platonica Anima del mondo, secondo la tesi fatta propria già da Abelardo. Ammettendo però l'immanenza dello spirito nella Natura, questa fu concepita come una totalità organica e indipendente, oggetto di studi separati rispetto alla teologia.
Contemporaneamente, presero vita anche nuovi fermenti religiosi miranti a rinnovare la Chiesa, come la Congregazione dei monaci Cluniacensi sviluppatasi intorno all'anno Mille, o l'Ordine dei Monaci Cistercensi, che assunse notevole incremento e vigore grazie all'opera di Bernardo di Chiaravalle. Questi propose una via mistica alla speculazione filosofica: secondo Bernardo l'unico modo per giungere alla verità consiste nella pratica della contemplazione e della preghiera, e non nell'astratto ragionamento. A lui si contrappose Pietro Abelardo, il quale sosteneva invece che «non si può credere in nulla se prima non lo si è capito».[14]
Agli inizi del Duecento nacquero altri due nuovi movimenti, uno fondato dallo spagnolo Domenico di Guzmán, la cui predicazione si basava sull'efficacia degli argomenti e la forza della persuasione, l'altro da Francesco d'Assisi, che mirava invece a convertire tramite un esempio di vita umile, semplice, e in armonia con la natura. Il primo si sarebbe orientato verso l'aristotelismo, il secondo verso il neoplatonismo. Questi movimenti si diffusero soprattutto nelle città e a contatto con le loro scuole che erano divenute i nuovi centri della cultura medievale.
Furono in particolare due frati domenicani, Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, a dare un contributo fondamentale allo sviluppo della filosofia scolastica. Autore di un imponente commento alla Metafisica di Aristotele, Alberto Magno fu tra i primi a recepire l'influsso dell'aristotelismo arabo all'interno del Cristianesimo, ridimensionando il ruolo che l'agostinismo aveva avuto fino allora, e provocando accese dispute quando alcuni concetti di derivazione averroistica (come la negazione dell'immortalità dell'anima o dell'origine creazionistica del mondo) sembravano porsi in contrasto con l'ortodossia cristiana. Egli introdusse allora una distinzione fra l'ambito della fede, di cui si occupa la teologia, e quello della scienza, in cui opera la ragione, pur cercando sempre un punto di incontro tra questi due campi. Alla fede assegnò Agostino come massima autorità, e alla scienza Aristotele, accolto però sempre da un punto di vista critico.[15] Si può dire che Alberto Magno diede alla teologia cristiana la forma e il metodo che, sostanzialmente, si sono conservati fino ai giorni nostri. Uomo dotato di grande genio e cultura,[16] visse con profonda devozione religiosa il suo impegno dottrinale.[17]
Discepolo di Alberto fu Tommaso, il quale analogamente, di fronte all'avanzare dell'aristotelismo arabo che sembrava voler mettere in discussione i capisaldi della fede cristiana, mostrò che quest'ultima non aveva nulla da temere, perché le verità della ragione non possono essere in contrasto con quelle della Rivelazione, essendo entrambe emanazione dello stesso Dio. Il contenuto della ragione naturale è anzi in grado, secondo Tommaso, di fornire quei «preamboli» capaci di elevare alla fede. Con la ragione, ad esempio, si può arrivare a conoscere «il fatto che Dio è» ("de Deo quia est"):[18] senza questa premessa non si potrebbe credere che Gesù ne sia il Figlio.
Proprio Aristotele, secondo Tommaso, partendo dallo studio della natura, dell'intelletto e della logica, aveva sviluppato delle conoscenze sempre valide e universali, facilmente assimilabili dalla teologia cristiana, dal momento che spesso la filosofia può giungere alle stesse verità contenute nella Bibbia. La grazia della fede non distrugge ma semmai completa la ragione, orientandola verso la meta finale già indicata dalla metafisica aristotelica, che è la conoscenza della verità, la quale, come insegnava lo stesso filosofo greco, è tale proprio in quanto rimane sempre uguale in ogni epoca e luogo. Compito del sapiente è dunque di volgersi alla verità, come la stessa divina Sapienza si è incarnata «per rendere testimonianza alla Verità»,[19] fine ultimo dell'intero universo, che trova senso e spiegazione nell'intelletto di Dio che l'ha creato.[20]
L'analogia esistente tra la mente umana e quella divina offriva in tal modo a Tommaso una regola valida anche per lo studio delle scienze naturali, nelle quali era rinvenibile un perenne passaggio dalla potenza all'atto che struttura gerarchicamente il mondo secondo una scala ascendente che va dalle piante agli animali, e da questi agli uomini, fino agli angeli e a Dio, che in quanto motore immobile dell'universo è responsabile di tutti i processi naturali. Le intelligenze angeliche, posti a fondamento dell'ordine cosmico dei cieli e dei pianeti, hanno una conoscenza intuitiva e superiore, che permette loro di sapere immediatamente ciò a cui noi invece dobbiamo arrivare tramite l'esercizio della ragione.
L'opera fondamentale di Tommaso d'Aquino, la Summa Theologiae, fu da lui concepita alla stregua del processo di edificazione delle grandi cattedrali europee: come la teologia ha lo scopo di rendere trasparenti alla ragione i fondamenti della fede, così l'architettura, in particolare quella delle chiese romaniche del Duecento, diventò lo strumento collettivo per l'educazione del popolo e della sua partecipazione alla Verità rivelata.
Mentre Tommaso contribuiva così alla rinascita e alla diffusione dell'aristotelismo nell'Europa cristiana, il suo contemporaneo Bonaventura di Bagnoregio fu invece il maggiore esponente della corrente neoplatonica. Nella riflessione di Bonaventura, speculare sotto certi aspetti a quella di Tommaso, non si trovano monumentali architetture razionali, bensì il prevalere di un sentimento mistico ispirato alla religiosità di San Francesco d'Assisi. In lui permase centrale il tema agostiniano dell'illuminazione divina, sia pure riservato ai soli concetti spirituali. Secondo Bonaventura infatti, mentre la sensibilità è strumento opportuno per l'anima, che attraverso la realtà empirica giunge alla formazione dei concetti universali, per la conoscenza dei principi spirituali occorre l'illuminante grazia divina.[21]
La via dell'illuminazione è dunque quella che porta a cogliere le essenze eterne, e ad alcuni permette persino di accostarsi a Dio. L'illuminazione guida anche l'azione umana, in quanto solo essa determina la sinderesi, cioè la disposizione pratica al bene. Permane qui, com'è chiaro, il valore conoscitivo e morale del mondo ideale platonico ma il tutto è trasfigurato dall'esigenza religiosa della salita dell'uomo verso Dio.
La dottrina di Tommaso d'Aquino, fulcro del sapere medievale dell'epoca, ispirò anche la filosofia sapienziale sottesa alla Divina Commedia e alla struttura dei cieli del Paradiso in cui si snoda l'ultima parte del viaggio iniziatico di Dante Alighieri nel suo poema. In esso si ritrova la visione astronomica medievale secondo cui ad ogni orbita celeste è preposto uno specifico coro di angeli, secondo l'ordine esposto da Dionigi nel De coelesti hierarchia, ognuno responsabile del movimento del suo rispettivo pianeta, come spiegato da Dante nel Convivio.[22]
«Amor che ne la mente mi ragiona / de la mia donna disiosamente, / move cose di lei meco sovente, / che lo 'ntelletto sovr'esse disvia. [...] »[25]
Mentre Tommaso e Bonaventura insegnarono soprattutto a Parigi, altre scuole crebbero di rinomanza, come quelle di Oxford e di Colonia. Il più importante maestro di Oxford fu Ruggero Bacone, che rifacendosi alla distinzione introdotta dagli aristotelici tra scienza e fede, individuò due diverse fonti della conoscenza: la ragione, la quale però si basa sempre su un sapere mediato, e l'intuizione, che invece attinge immediatamente al dato. Quest'ultimo può essere di natura mistica, se concerne le verità teologiche della Rivelazione, oppure sperimentale, se attinente alle verità del mondo naturale. La distinzione tra questi due ambiti, che fu anticipata nei suoi sviluppi anche dalla scuola di Chartres, tenderà col tempo ad accentuarsi sempre più.
Grande dibattito suscitò all'interno della scolastica la cosiddetta disputa sugli universali, una questione, come già accennato, riguardante la natura dell'universale, ossia del predicato che viene assegnato a una molteplicità di enti. Quando ad esempio si afferma: «tutti gli esseri sono mortali», si attribuisce una caratteristica generale (un quid, cioè l'essere mortale) a delle realtà concrete e particolari. Qual è allora la natura di questo quid? Le risposte variarono nel tempo dando luogo a una disputa che attraversando i secoli, iniziando da Porfirio nel 300 circa fino a Guglielmo d'Ockham (1300) e oltre, fu all'origine per certi versi della filosofia moderna.
Le possibili risposte alla questione sono sintetizzabili nel compromesso elaborato da Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, sostenitori del realismo moderato, secondo cui gli universalia sono:
Ai realisti, che affermavano l'esistenza oggettiva e indipendente dell'universale, si contrapposero i nominalisti, i quali invece negavano qualsiasi realtà all'universale che per essi è dunque un semplice nome, flatus vocis, essendo solamente post rem.
Filosoficamente, il Medioevo si caratterizza per una grande fiducia nella ragione umana, ossia nella capacità di poter indagare i misteri della fede, in virtù del fatto che Dio nei Vangeli si presenta come Logos (cioè Principio Logico).
La crisi di questa fiducia iniziò a partire dal Trecento, quando il filosofo scozzese Duns Scoto affermò che esiste un limite che non può essere esplorato dalla filosofia, e oltre il quale la ragione non può andare. Sollevando il problema dell'haecceitas, ossia dell'essenza che determina un particolare oggetto in un certo modo rendendolo "questo qui" (hic et nunc), Scoto sostenne che degli universali posti all'origine delle singole realtà non si può dire nulla, essendo impossibile stabilire il perché del loro essere così e non diversamente.
Pur aderendo al realismo, Duns Scoto sottolineò in tal modo l'aspetto apofatico e ignoto di Dio, rilevando l'esistenza di un limite intrinseco ad ogni sapere umano: se la logica vuole essere consistente, deve rinunciare a indagare ciò che per sua natura non può avere una risposta razionale. Egli affermava bensì, sulla scia di Parmenide, la necessità di essere dell'Essere, ma l'impossibilità di necessitarne il contenuto, di dargli cioè un predicato razionalmente giustificabile.
Scoto divenne un assertore della dottrina del volontarismo, secondo cui Dio sarebbe animato da una volontà incomprensibile e arbitraria, del tutto slegata da criteri razionali che altrimenti ne limiterebbero la libertà d'azione. Questa posizione ebbe come conseguenza un crescente fideismo, ossia una fiducia cieca in Dio, non motivata da argomenti.
Al fideismo aderì soprattutto Guglielmo di Ockham, esponente della corrente nominalista, all'interno della quale egli giunse a negare alla Chiesa il ruolo di mediazione tra Dio e gli uomini. Basandosi su una concezione riduzionista del sapere (all'origine del suo famoso rasoio), Occam criticò i concetti di causa e di sostanza, da lui giudicati metafisici, in favore di un approccio empirico alla conoscenza.
Radicalizzando la posizione filosofica di Scoto, Occam affermò che Dio non ha creato il mondo per «intelletto e volontà» come sosteneva Tommaso d'Aquino, ma per sola volontà, e dunque in modo arbitrario, senza né regole né leggi. Come Dio, anche l'essere umano è del tutto libero, e solo questa libertà può fondare la moralità dell'uomo, la cui salvezza però non è frutto della predestinazione, né delle sue opere. È soltanto la volontà di Dio che determina, in modo del tutto inconoscibile, il destino del singolo essere umano.
Giovanni Buridano riprese inizialmente le tesi di Occam, cercando poi di conciliarle con la fisica aristotelica.
In Germania, intanto, Meister Eckhart poneva le basi della mistica speculativa tedesca, accentuando per parte sua il carattere misterioso e imperscrutabile di Dio, elaborando una teologia negativa radicalmente apofatica. Secondo Eckhart, Dio genera se stesso e il proprio Figlio negli uomini, in un atto creativo continuo e ininterrotto. Di qui il suo insegnamento rivolto alla cura dell'anima e della preghiera contemplativa.[26]
Affini al misticismo di Eckhart furono i toni utilizzati dall'anonimo autore inglese della Nube della non conoscenza, dove Dio è rappresentato «avvolto da nubi e tenebre» secondo un'immagine di derivazione biblica.[27]
La convinzione dell'inconoscibilità di Dio radicalizzò la separazione tra scienza e fede, mantenendo da un lato la valorizzazione dell'indagine naturale sul modello della scuola di Chartres, ma al contempo conducendo ad una fiducia cieca nel Creatore. L'accentuarsi della distanza tra la dimensione terrena e quella celeste-spirituale, che nel Trecento portò a un tale crescente fideismo, fu espressa dal Gotico nella sua forma estrema.