La sindrome di Stoccolma è un particolare stato di dipendenza psicologica e/o affettiva che si manifesta in alcuni casi in vittime di episodi di violenza fisica, verbale o psicologica. Il soggetto affetto dalla sindrome, durante i maltrattamenti subiti, prova un sentimento positivo nei confronti del proprio aggressore che può spingersi fino all'amore e alla totale sottomissione volontaria, instaurando in questo modo una sorta di alleanza e solidarietà con il suo carnefice.[1][2] La sindrome viene spesso evocata nei resoconti giornalistici o in opere di fantasia,[3] ma non è inserita in nessun sistema internazionale di classificazione psichiatrica[4]. Non è classificata in nessun manuale di psicologia, è stata nominata soltanto in un ridotto numero di studi scientifici[5] e viene ritenuta un caso particolare del fenomeno più ampio dei legami traumatici, ovvero: quei legami fra due persone delle quali una gode di una posizione di potere nei confronti dell'altra, la quale diviene vittima di aggressioni o altri tipi di violenza.[6]

Storia

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Il palazzo di piazza Norrmalm a Stoccolma in cui avvenne la rapina alla Sveriges Kreditbanken del 1973

L’espressione fu usata per la prima volta da Conrad Hassel[7], agente speciale dell’FBI, in seguito ad un caso di sequestro di persone avvenuto il 23 agosto 1973, quando Jan-Erik Olsson, un uomo di 32 anni evaso dal carcere di Stoccolma dove era detenuto per furto, tentò una rapina alla sede della Sveriges Kreditbanken di Stoccolma e prese in ostaggio tre donne e un uomo[1][2] (Elisabeth, 21 anni, cassiera; Kristin, 23 anni, stenografa; Brigitte, 31 anni, impiegata; Sven, 25 anni, assunto da pochi giorni). Olsson chiese come riscatto anche la liberazione di un altro detenuto, Clark Olofsson; le autorità acconsentirono a tutte le richieste del sequestratore, compresa un'automobile per la fuga, ma rifiutarono di garantirgli la fuga insieme agli ostaggi.[8] La prigionia e la convivenza forzata degli ostaggi con il rapinatore durarono oltre 130 ore al termine delle quali, grazie a gas lacrimogeni lanciati dalla polizia, i malviventi si arresero e gli ostaggi vennero rilasciati senza che fosse eseguita alcuna azione di forza e senza che nei loro confronti fosse stata posta in essere alcuna azione violenta da parte del sequestratore.[8] La vicenda attirò l'attenzione dell'opinione pubblica svedese.

Durante la prigionia, come risulterà in seguito dalle interviste psicologiche (fu il primo caso in cui si intervenne anche a livello psicologico su sequestrati), gli ostaggi temevano più la polizia che non gli stessi sequestratori[9]. Il locale in cui i fatti si svolsero, e in cui le sei persone vissero per circa sei giorni, era simile a un corridoio, lungo circa sedici metri, largo poco più di tre e mezzo, ricoperto di moquette. Rintanati in questo ambiente ristretto, si verificarono vari episodi di gentilezza da parte dei rapitori: ad esempio, Olsson diede una giacca di lana all'ostaggio Kristin Enmark per il freddo, la calmò a seguito di un brutto sogno e le permise di camminare fuori dal caveau (collegata però a una corda di una decina di metri). A seguito di quest'ultimo evento, la vittima raccontò un anno dopo in un'intervista al New Yorker che, sebbene fosse legata, sentì gratitudine nei confronti del carceriere, poiché le attenzioni ricevute da parte di quest'ultimo indussero lei e le altre vittime a sentirsi trattati con gentilezza, nonostante la circostanza. Infatti, un altro ostaggio, Sven Safstrom, arrivò a dire che si potrebbe "pensare a lui come a un Dio di emergenza".[8] Nel corso delle lunghe sedute psicologiche cui i sequestrati vennero sottoposti, si manifestò un senso positivo verso i malviventi che "avevano ridato loro la vita" e verso i quali si sentivano in debito per la generosità dimostrata.[senza fonte]

Dal secondo giorno gli ostaggi avevano sviluppato un rapporto che li portò a stare dalla loro parte, temendo anche la polizia più dei loro stessi rapitori e, anche se sotto minaccia di un'arma da fuoco, provavano compassione per i loro rapitori. Il rapporto che si sviluppò fu tale che quando Olofsson disse alla polizia che avrebbe sparato alla gamba di Safstrom, questi pensò che il suo carceriere fosse stato gentile a voler sparare solo alla gamba e non a lui. Quando poi gli ostaggi vennero liberati, quest'ultimi si preoccuparono dell'incolumità dei propri carcerieri e, dopo essere usciti dall'edificio, si abbracciarono con loro. Anche successivamente le vittime continuarono a provare sentimenti contrastanti e apparentemente irrazionali nei confronti dei rapitori. Gli psichiatri spiegarono che gli ostaggi erano diventati emotivamente debitori ai loro rapitori, e non alla polizia, perché non li avevano uccisi. Dopo l'arresto gli ex ostaggi fecero visite in carcere ai loro ex carcerieri. Dopo pochi mesi dai fatti, gli psichiatri soprannominarono lo strano fenomeno come "Sindrome di Stoccolma", intesa come una reazione emotiva automatica, sviluppata a livello inconscio, al trauma di essere una vittima e il termine divenne parte del lessico popolare nel 1974 quando fu usato come difesa per Patty Hearst la quale, dopo essere stata rapita da esponenti dell'Esercito di Liberazione Simbionese, finì per divenire loro complice in una serie di rapine in banca.[8]

Cause

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Benché a livello razionale si possa credere che, in una situazione di sequestro, il comportamento più vantaggioso per il sequestrato sia "farsi amico" il sequestratore, in realtà la "Sindrome di Stoccolma" non deriva da scelta conscia, bensì come riflesso automatico. La sindrome, rilevata e studiata poi in tutto il mondo proprio a partire dai fatti di Stoccolma (da cui il nome coniato dal criminologo e psicologo Nils Bejerot), comporta un elevato stato di stress psicofisico, che aumenta a mano a mano che i protagonisti sembrano accettare la convivenza in un ambiente minaccioso che li costringe a nuove situazioni di adattamento, e alla conseguente regressione a precedenti stadi di sviluppo della personalità.

Questo "legame positivo", tuttavia, scaturente da una convivenza in qualche modo involontaria, interessa, indistintamente, sia l'ostaggio sia il carceriere: cementando sempre più il legame tra le due entità, sviluppa il concetto di un "NOI qui dentro" contro un "LORO che stanno fuori".

In via preliminare, si consideri che nello sviluppo della "Sindrome di Stoccolma", sono stati individuati tre stadi: "il sentimento positivo dei prigionieri verso i loro carcerieri, collegato al sentimento negativo verso la polizia. Tale sentimento è spesso contraccambiato dai carcerieri. Per risolvere favorevolmente un caso con ostaggi, la polizia deve, perciò, incoraggiare e tollerare le prime due fasi, così da provocare la terza salvando in tal modo la vita del sequestrato"[10].

L'ostaggio reagisce come può all'estremo stato di stress cui è sottoposto: una delle prime reazioni, rifugio psicologico primitivo, ma emotivamente efficace, è la "negazione". Per sopravvivere, la mente reagisce tentando di negare quanto sta avvenendo[11].

Altra reazione possibile è la perdita di sensi (indipendente dalla volontà cosciente) o il sonno[12].

Solo dopo qualche tempo l'ostaggio comincia a rendersi conto, ad accettare e a temere la propria situazione, ma trova un'altra valvola di sicurezza nel pensare che non tutto è perduto poiché presto interverrà la polizia per salvarlo. La certezza di una salvezza "garantita" dall'autorità aiuta l'ostaggio nella propria difesa mentale, ma più passa il tempo senza che accada nulla - e in casi simili è facile perdere la cognizione del trascorrere dei minuti e delle ore -, più l'ostaggio, automaticamente, tende inconsciamente a rinnegare l'autorità costituita che è diventata per lui, di fatto, un'incognita. Logica conseguenza è l'inizio del processo di immedesimazione, o di "identificazione", con il carceriere.

Nel contempo aumenta sempre più il timore di una conclusione tragica e tutti gli ostaggi sottoposti a interviste psichiatriche a seguito di esperienze del genere, hanno dichiarato di aver “approfittato” dell'occasione per fare un resoconto della propria vita; tutti hanno giurato a sé stessi di cambiarla in meglio una volta terminata la brutta avventura, quasi che quest'ultima costituisse lo spartiacque tra la "vecchia" vita e una "rinascita" a vita nuova, completamente avulsa e indipendentemente dalla precedente.

Ciò che è importante, nella difesa dell'ego dell'ostaggio, nel tentativo di liberarlo con il minimo danno, è creare un rapporto positivo tra il sequestratore e la vittima tal ché da "oggetto" si trasformi in "essere umano". Quando ostaggio e rapitore si trovano all'interno di uno stesso locale, magari angusto, sia esso il caveau di una banca, o la fusoliera di un aereo, una casa, una grotta, un treno, o altro ancora, si sviluppa un rapporto di "convivenza" che favorisce, e accelera, il reciproco processo di "umanizzazione". In tal senso, quanto più il carceriere riesce a compenetrarsi nei problemi dell'ostaggio, o viceversa, tanto più aumenteranno le possibilità di sopravvivenza[13].

Molti sequestrati, che hanno provato la "sindrome", hanno dichiarato di soffrire di incubi ripetitivi in cui i loro sequestratori, fuggiti o comunque liberi, ripetevano i fatti precedenti, ma questo non sempre corrispondeva a una diminuzione del legame positivo che si era instaurato a suo tempo. Alcune vittime di sequestri, che provarono la "sindrome", a distanza di anni sono ancora ostili alla polizia. Le vittime della rapina alla Kreditbank di Stoccolma per lunghissimi anni si sono recate a far visita ai propri carcerieri, e una di esse ha sposato Olofsson. Altre vittime hanno cominciato a raccogliere fondi per aiutare i propri ex-carcerieri e molte si sono rifiutate di deporre in tribunale contro i sequestratori, o anche solo di parlare con i poliziotti che avevano proceduto all'arresto.

Sviluppo della sindrome

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Tentando una schematizzazione, potremmo individuare la sequenza degli stati emotivi di un ostaggio come segue:

  1. incredulità;
  2. illusione di ottenere presto la liberazione;
  3. delusione per la mancata, immediata, liberazione da parte dell'autorità;
  4. impegno in lavoro fisico o mentale;
  5. rassegna del proprio passato.

Quando comincino a manifestarsi nell'ostaggio le fasi di cui sopra e quanto esse durino non è possibile stabilirlo, poiché molti altri fattori e incognite entrano in gioco nel formarsi della successiva "Sindrome", e il tempo è solo uno dei fattori giacché il suo trascorrere può creare sì, legami positivi, ma anche negativi, a seconda dei rapporti interpersonali che, fin dal primo momento, si instaurano tra l'ostaggio e il suo sequestratore. Fino a questo punto, tuttavia, la "Sindrome di Stoccolma" non si può ancora dire scattata.

Nelle fasi iniziali di studio della "sindrome", dopo l'episodio di Stoccolma, si ritenne che il tempo, da solo, fosse fattore determinante per la sua insorgenza, ma successivi casi con ostaggi dimostrarono il contrario[14][15].

Nella stragrande maggioranza dei casi, la prima esperienza che accomuna tutti coloro che cadono sotto l'"effetto della sindrome", è il contatto positivo con il carceriere. Tale contatto non deriva tanto dal comportamento materiale del carceriere, bensì da ciò che questi potrebbe fare e non fa (percosse, violenza carnale, maltrattamenti in genere, ecc.). E tuttavia, alcuni ostaggi feriti dai propri carcerieri, hanno ugualmente sperimentato lo stato di "sindrome" poiché si sono convinti che le violenze patite, le ferite riportate, si erano rese necessarie per tenere sotto controllo la situazione o, ancor più, erano giustificate da una loro reazione o resistenza.

Un'altra esperienza che accomuna gli ostaggi è l'immedesimazione nelle qualità umane dimostrate dal carceriere, anche quando queste siano state di breve durata[16].

Nei casi di rapina con ostaggi, in definitiva, se è vero che il rapinatore armato si trova "in trappola" e si ritiene "vittima" della polizia, è altrettanto vero che anche l'ostaggio tende a condividere tale atteggiamento. Quando il rapinatore viene sorpreso dalla polizia ed è "costretto" a prendere ostaggi, il suo problema è chiaro: fuggire vivo e, possibilmente, con i soldi. L'ostaggio si trova nella stessa identica posizione: vuole uscire vivo; il suo carceriere certo glielo consentirebbe, ma è la polizia a impedirlo. Il rapinatore si "umanizza", perciò, agli occhi dell'ostaggio, è diventato "persona", con problemi identici ai propri. L'insistenza della polizia nel richiedere al bandito di arrendersi, non fa altro che prolungare la prigionia e allontana la speranza di riguadagnare la libertà senza danni fisici.

Matura così, nella mente dell'ostaggio, il convincimento che: "se la polizia va via, anch'io me ne vado; se la polizia lascia andare il bandito, anch'io sarò libero!". Comincia così la "Sindrome di Stoccolma" e, d'altro canto, il legame positivo, l'"umanizzazione" e il "rendersi persona", che è alla base della sindrome, si può manifestare non solo nell'ostaggio, ma anche nel carceriere.

Casi celebri

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Patricia Hearst aiutò il SLA durante una rapina in banca due mesi dopo il proprio rapimento

Incidenza

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Dalla banca dati dell'FBI statunitense risulta che circa l'8% degli ostaggi ha manifestato sintomi della sindrome di Stoccolma[21].

Riferimenti nella cultura di massa

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Cinema e televisione

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Musica

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Videogiochi

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Fumetti

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Note

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  1. ^ a b Stoccolma, sindrome di in "Dizionario di Medicina", su treccani.it. URL consultato il 19 novembre 2018.
  2. ^ a b SINDROME DI STOCCOLMA - Dizionario medico - Corriere.it, su corriere.it. URL consultato il 19 novembre 2018.
  3. ^ La sindrome di Stoccolma - Il Post, in Il Post, 23 agosto 2013. URL consultato il 19 novembre 2018.
  4. ^ Valentina Biagini, Stefania Zenobi, Marianna Vargas, Maurizio Marasco, La sindrome di Stoccolma: fenomeno mediatico o patologia psichiatrica?, in RASSEGNA ITALIANA DI CRIMINOLOGIA, vol. 2010, n. 2.
  5. ^ . Nella letteratura scientifica recente sono stati pubblicati solo tre lavori (Jülich, 2005, Cantor, Price, 2007, Namnyak e coll., 2008)
  6. ^ a b La sindrome di Stoccolma - Pagina 2 di 2 - Il Post, in Il Post, 23 agosto 2013. URL consultato il 19 novembre 2018.
  7. ^ Stoccolma, sindrome di in "Dizionario di Medicina", su www.treccani.it. URL consultato il 13 giugno 2023.
  8. ^ a b c d The Birth of "Stockholm Syndrome," 40 Years Ago. URL consultato il 23/08/2014
  9. ^ Nel corso di una telefonata con l'allora Primo ministro svedese Olof Palme, uno degli ostaggi espresse chiaramente il sentimento del gruppo: "questi ladri ci difendono dalla polizia!"
  10. ^ Da un testo dell'"FBI Academy" di Washington.
  11. ^ Le prime frasi che ci vengono in mente, quando qualcosa di brutto ci sta accadendo, sono: "oh, no!"; “non è possibile”, "non sta accadendo a me", "è solo un brutto sogno"
  12. ^ Sono noti casi con ostaggi che hanno dormito ininterrottamente per 48 ore
  13. ^ Nel 1975 un gruppo di Sud-Molucchesi dirottò un aereo di linea. Quando il velivolo atterrò per un rifornimento venne circondato dalle forze di polizia che gli impedirono di decollare. I terroristi cominciarono a uccidere i passeggeri, uno al giorno, per ottenere la liberazione di altri compagni detenuti. Per la terza mattina venne scelto un giornalista, Gerard Vaders, che chiese di poter parlare con un altro passeggero per dettare una sorta di testamento; all'incontro vollero essere presenti i dirottatori. Vaders trattò di argomenti personalissimi (disaccordi con la moglie, problemi derivanti da una adozione e altro); al termine della conversazione -durata pochi minuti- i terroristi presenti al colloquio scelsero un altro passeggero che uccisero immediatamente.
  14. ^ Nel 1976, un volo della TWA da New York all'Arizona, venne dirottato su Montreal e da qui all'isola di Terranova dove, dopo tre ore, i sequestratori rilasciarono 34 dei 95 ostaggi per poter proseguire con minor carico verso l'Islanda. A bordo vennero tenute persone non coniugate, o sposate senza figli, o volontarie che vennero rilasciate 25 ore dopo a Parigi, dopo 13 ore di sosta con l'aereo circondato dalle forze di polizia. La sindrome, calcolando il tempo come fattore base, avrebbe dovuto scaturire tra coloro che più a lungo avevano avuto a che fare con i carcerieri, ma così non fu e anche passeggeri rilasciati dopo sole tre ore la manifestarono mentre altri, che vennero rilasciati dopo, ne furono esenti.
  15. ^ Nel 1971 Sir Geoffrey Jackson, Ambasciatore d'Inghilterra in Uruguay, venne rapito dall'organizzazione eversiva dei Tupamaros che lo tenne prigioniero per 244 giorni, ma non si manifestò alcuna sindrome tra il diplomatico e i suoi carcerieri.
  16. ^ Nel 1974, nel penitenziario di Huntsville (Texas), Fred Carrasco, ivi detenuto per omicidio e in attesa dell'esecuzione capitale, prese in ostaggio 70 persone. Durante i giorni di assedio Carrasco liberò gran parte degli ostaggi adottando di volta in volta differenti criteri di selezione. Dopo undici giorni, improvvisamente, Carrasco uccise gli ostaggi rimasti e si suicidò non prima, però di aver scritto lettere intense e cariche di affetto per i sequestrati liberati precedentemente. Nonostante l'efferatezza del gesto finale, molti degli ostaggi liberati dimostrarono, comunque, comprensione per Carrasco. Il rapporto positivo che legava tali persone al malvivente, il sentire di essere rinati grazie alla sua magnanimità, la sua umanità nei loro confronti, prevaleva sulla inaudita e folle violenza dell'atto finale.
  17. ^ Articolo dall'archivio Crime Library, su trutv.com. URL consultato l'8 novembre 2012 (archiviato dall'url originale il 10 dicembre 2012).
  18. ^ Articolo dall'archivio storico del Corriere della Sera
  19. ^ Natascha Kampusch, su natascha-kampusch.at. URL consultato l'8 novembre 2012 (archiviato dall'url originale il 3 gennaio 2013).
  20. ^ Copia archiviata, su shawnhornbeck.com. URL consultato l'8 novembre 2012 (archiviato dall'url originale il 22 novembre 2012).
  21. ^ Wayback Machine (PDF), su fbi.gov, 13 settembre 2001. URL consultato il 19 novembre 2018 (archiviato dall'url originale il 13 settembre 2001).

Voci correlate

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